domenica 1 settembre 2024

Giovanni e Stefania, the wedding story, ideata, scritta ed editata da Giovanna Sica




“Era il 26 agosto 2024, resisteva un caldo torrido, da questa parte del pianeta Terra, e due giovani, folli e innamorati o, semplicemente, follemente innamorati, stavano convolando a nozze sante e giuste. Una farfalla blu disegnava figure incomprensibili nell’aria, davanti alla Chiesa Santa Maria di Costantinopoli di Nocera Superiore, mentre uno sposo spavaldo, di nome Giovanni, teneva banco, perfettamente a suo agio, dentro il suo splendido vestito blu. Eh sì, proprio come se il fatto (che da lì a poco si sarebbe trovato una fede luccicante all’anulare sinistro) non fosse il suo, il giovane uomo pianificava cose col prete, accoglieva i suoi invitati, abbracciava gli amici e smistava sorrisi e indicazioni in tre lingue: italiano, inglese e napoletano. Giovanni si sentiva talmente a suo agio nell’attesa del Sì, Lo Voglio, che, a un certo punto, ritenendo che il corridoio centrale della chiesa non fosse abbastanza largo, pensò bene di spingere i banchi di lato, facendosi aiutare dai suoi amici, proprio come un padrone di casa che sposta i mobili nel suo salotto. Ma a quel punto intervenne il padrone vero, il parroco, don Raffarle, che tuonò dolcemente: "Giovanni, la sicurezza, non esageriamo!". Ma Giovanni, che sapeva bene come si dà una botta al cerchio e una alla botte, rispose prontamente: "Certo, don Raffaele, la sicurezza, ci mancherebbe!" ed esortò i suoi compari a spingere nuovamente i banchi verso il corridoio centrale, di almeno 10 centimetri abbondanti.


Il matrimonio di Giovanni e Stefania, attesa all’ altare per le ore 11, s’avviava proprio bene, tutto faceva presagire una bella cerimonia nuziale. Si vedevano comparire nel piazzale antistante alla chiesa anche persone che non erano fra gli invitati; vicini di casa, mamme di amici che avevano visto gli sposi crescere, e adesso li volevano vedere scambiarsi la Promessa davanti a Gesù. E poi, la verità è che i matrimoni piacciono a tutti, ci rassicurano che questo mondo non è tutto da buttare e l’amore, sì, l’amore, ci salverà. E così, quel lunedì di fine agosto, gli automobilisti furono tolleranti, pure se si trovarono una Maserati sul ciglio della strada e faticavano a transitare; i passanti si affacciavano in mezzo al capannello di invitati per vedere chi è che stava passando il guaio! Quel lunedì 26 agosto, un uomo in videochiamata con la sua donna le fece la panoramica dell’evento e poi ci azzeccò vicino la Proposta, quella fatidica di matrimonio, con un sorriso scemo sulla faccia, lo stesso che aveva Giovanni il primo marzo del 2023, quando, nel giorno del loro ottavo anniversario di fidanzamento, aveva chiesto a Stefania di diventare sua moglie. Lo aveva fatto con tutti i crismi, portandola a cena all’ultimo piano del famoso grattacielo londinese Sky Garden, inginocchiandosi con una scatoletta blu di velluto in mano e tirando fuori il brillocco, mentre con voce rotta dall’emozione le domandava: “Vuoi sposarmi?”. Non mi è dato sapere cosa rispose la donna all'uomo in videochiamata, il 26 agosto, ma, senz’altro Stefania, un anno e mezzo prima, s’era affrettata
 a rispondere di sì. La farfalla blu con striature di rosso e bianco continuava a danzare sulle teste dei presenti strepitanti; intanto si erano fatte le 11 e si presumeva stesse per arrivare la sposa. Il piacevole fracasso di voci festanti e vestiti sbrilluccicanti durò sul piazzale della chiesa fino a che Valentino Ruggiero, il fotografo, ordinò: "Tutti dentro, lo sposo deve andare all' altare al braccio della sua mamma e lì aspetterà la sua sposa". Tutti ubbidirono, tranne la farfalla, ché le farfalle sono libere e fanno come gli pare, e non è che uno può dire loro quando e dove devono battere le ali. Nel tragitto fino all' altare, Giovanni iniziò a contrarre leggermente i lineamenti del viso, come se gli stesse uscendo dagli occhi un'emozione a lungo trattenuta, ma fu solo quando giunse all' altare la donna della sua vita, al braccio del suo papà, che l’uomo in vestito blu tirò fuori un mare di lacrime, che tutti i fazzoletti "Per le lacrime" che aveva fatto spargere sui banchi, per gli invitati, in quel momento sarebbero serviti tutti a lui, che davanti a Stefania si sciolse, come una montagna di neve attraversata da un potente raggio di sole...



Lui così grande e lei così piccola, eppure era lui quello da rassicurare, fra i due, e Stefania lo fece. Lì, sull’altare di Dio, e tutte le volte che quel giorno Giovanni ne ebbe bisogno. Alla sposa piccolina, ma forte come una roccia, bastava guardare dritto negli occhi il suo uomo e passargli una mano sul viso, raccoglierlo tutto in una carezza, come a dirgli: "Amore mio, va tutto bene, lo vedi che sono qui per te, e sempre al tuo fianco mi troverai". Intanto, il prete, che sapeva fare il suo mestiere, fece partire la cerimonia, dosando bene ironia, consigli su come far funzionare un matrimonio (che atto di fede, prenderli per buoni, considerato che arrivano da uno che non si è mai sposato!) e insegnamenti di nostro Signore. "Ho già celebrato le nozze delle due sorelle della sposa, con Stefania abbiamo finito o ce ne sono ancora altre da maritare?" butto lì don Raffaele, per strappare una risata. "Niente vale a questo mondo e niente dura senza amore" sentenziò, poi, per invitare a riflettere sulla sacralità del rito che stava celebrando. La farfalla blu continuava a svolazzare di qua e di là, leggera, impercettibile. Si adagiò su una rosa bianca, vicino al leggio dorato, quando Marilina, cugina di Giovanni, si fece coraggio e messaggera della sua famiglia, e lesse una lettera agli sposi da parte di Anna e Sabato, genitori dello sposo, ché mamma Anna voleva fortemente fare gli auguri a suo figlio e sua nuora da parte sua e di suo marito, così come insieme a lui aveva fatto tutto, per tutti gli anni che erano stati assieme ...

"E il vero amore può nascondersi, confondersi, ma non può perdersi mai.

Sempre e per sempre, dalla stessa parte, mi troverai. Sempre e per sempre, dalla stessa parte, mi troverai". Sempre e per sempre, F. De Gregori.

Marilina, ambasciatrice del senso di famiglia dei suoi zii, fece molta fatica a leggere, prima Se (Lettera al figlio) di Rudyard Kipling e poi Sempre e per sempre di Francesco De Gregori; rovesciò sopra i suoi fogli tutta la sua commozione, incespicò su alcune frasi dure a tirare fuori. Annaspò, tremò, cercò un respiro profondo, non si fermò, pianse, eppure spinse il cuore fino all'ultima parola. Sabato, papà di Giovanni, era morto da quasi tre mesi. Con poco preavviso e tanto dolore, lasciando dietro di sé un vuoto che i suoi cari avevano deciso di riempire con i suoi insegnamenti. I suoi sorrisi abbozzati, i momenti belli condivisi e quelli che sarebbero venuti dopo di lui, come quello del matrimonio del suo secondogenito, tenendolo stretto in mezzo a loro, perché quelli a cui vogliamo veramente bene non muoiono mai. Giovanni tremò  ascoltando le parole di sua cugina, ma non cadde giù, c'era sua moglie al suo fianco che, prontamente, gli mise in faccia una carezza, e lui con lei vicino, con quella mano sulla sua faccia, aveva perfino il potere di trasformare il vuoto lasciato da suo papà in nuova amorevole presenza, nuove sistole e nuove diastole che mantengono caldo il sangue del mondo e riconsegnano la vita ai vivi, chè la vita è più forte della morte, sempre.


 

Poi l' atmosfera tornò leggera, il coro composto da amici degli sposi riprese il suo canto e Sabatino, il nipotino che si era presentato al matrimonio col vestito buono e una lavagnetta con su scritto: "Scappa ora o amala per sempre" aveva lasciato che quella scritta scolorasse ai piedi di uno scranno, chè tanto non c' erano mai stati dubbi sulle intenzioni dello zio. Tre splendide donzelle, Rosa, Lucia e Alessandra fecero un cuore col riso davanti al portone della chiesa, e tutti si misero in fila per conquistare una granita e un po' di refrigerio in qualche anfratto all'ombra, non prima di aver lanciato riso e sorrisi a Giovanni e Stefania. Lo sposo gigante ammantava col suo corpo e col suo amore la sua sposa piccina, in una luminosa cornice di fiori, auguri, flash dei ben quattro fotografi e scintille, che partivano dai vestiti delle signore e riverberavano nel sole cocente di un'estate, che proprio non ne voleva sapere di cedere lo scettro all’autunno imminente.

Per i festeggiamenti gli sposi e la carovana di invitati si spostarono a Mirabella di Avellino, in una splendida residenza, Villa Orsini, che nel XVIII secolo era stata la casa dei principi Orsini. Si accomodarono all’aperto, sotto ai gazebi da cui la vista spaziava sul verde lussureggiante che circondava la tenuta. Il direttore di sala, Antonio Salvatore, e tutto il suo staff, sembravano avere un solo intento: far star bene i loro ospiti, coccolarli con cose buone da mangiare, da bere e da godere. E non c’era imprevisto che potesse coglierli impreparati: arrivò la pioggia e loro avevano pronti gli ombrelli, bianchi, con tanto di ricamo di pizzo sull’orlo. Più che un pranzo di nozze, quello di Stefania e Giovanni fu un percorso esperienziale: dopo il piacevole benvenuto con spritz e finger food, furono servite in giardino ben cinque goduriose pietanze. Seguì una gita nelle segrete cantine del castello, per degustare formaggi, salumi e vino Taurasi. Il pranzo, vero e proprio, fu apparecchiato in una sala raffinata dalle ampie vetrate, che davano su un cielo che cominciava a rosseggiare, chè intanto che arrivò la pasta, si era fatta quasi ora di cena! La farfalla blu non era mica sparita con la pioggia, s’era solo nascosta un po’, ma, adesso aveva ripreso la sua danza, posandosi su tutti i fiori posizionati al centro dei tavoli, con tanto di stemma dei più bei quartieri di Londra. Londra era ovunque: sul libretto delle preghiere in chiesa, nei segnaposto, nel tabellone nuziale.

Londra era diventata casa degli sposi nel 2018…

Giovanni e Stefania stavano assieme da tre anni, quando decisero di trasferirsi a Londra. L’idea era quella di fare esperienza, imparare l’inglese, così da continuare a lavorare nella ristorazione, ma con gli strumenti per farlo in Costiera Amalfitana. Poi, però, nonostante le difficoltà iniziali, Londra era entrata nel cuore dei due fidanzati, così avevano deciso che lì avrebbero strutturato il loro futuro. L’occasione di mettersi alla prova arrivò due anni dopo, con il Covid; i ristoranti erano chiusi e bisognava stare a casa. Ma Giovanni e Stefania a casa, nella loro cucina, avevano un mondo buono, buonissimo, da portare fuori: sapevano sfornare un sacco di pietanze gustose, e allora, appena fu possibile, cominciarono a preparare piatti su ordinazione. Diventarono imprenditori di loro stessi, crearono un loro brand “AZZ, taste of Amalfi”, conquistarono ben due postazioni dove esporre i loro manicaretti…



Il clima di festa al matrimonio di Giovanni e Stefania lo potevi annusare nell’aria come un potente fascinoso profumo. Si aprirono le danze, e gli sposi danzarono abbracciati allo stesso ritmo, seguendo lo stesso battito come se il cuore fosse lo stesso. Giovanni ballò con mamma Anna e Stefania con papà Vincenzo, poi scesero in pista tutti, parenti e amici. Gli amici venivano da ogni parte del mondo e tutti erano palesemente felici di essere lì. Agostino, che aveva fatto da testimone agli sposi insieme a sua moglie Lucia, era orgoglioso di esser stato scelto per un ruolo così importante, quello di vegliare sul matrimonio del suo amico. “Conobbi Giovanni quando venne a fare il cameriere nel ristorante Famiglia Principe; ci piacemmo subito, insieme facemmo la dieta e io, a modo mio, cercavo di rassicurarlo sul fatto che era una persona bellissima, chilo più, chilo meno. Lui s’affezionò tanto a me, e pure se allora non c’aveva manco la fidanzata, giurò che io sarei stato il suo testimone di nozze, ché poi la fidanzata sarebbe arrivata. Cominciò a chiamarmi compare, il mio compariello, e io ero onorato del suo affetto, che contraccambiavo pienamente. La fidanzata poi arrivò, ma, dato che qualche anno dopo se ne erano andati a vivere a Londra, non ero più sicuro che sarei stato io il suo testimone di nozze. E invece Giovanni, quando è venuto a invitarmi al suo matrimonio, ha detto solo che mi dovevo fare un bel vestito, visto che ero il suo compare, come se mai fosse stata messa in discussione quell’antica promessa. Giovanni è la persona più bella che io abbia mai conosciuto”. Anche la sposa aveva amicizie consolidate, addirittura quella con Gerarda era cominciata quando avevano solo 3 anni. “Io e Stefania ci siamo spartite tutto: i primi giochi, l’asilo, la scuola. I primi batticuori, le scelte per il futuro. Per me è stata una gioia partecipare al suo matrimonio e a tutti preparativi; il momento in cui mi sono emozionata di più è stato l’altro ieri, quando Giovanni, dentro a un cuore le ha cantato All of me di John Legend… “Cause all of me loves all of you, love your curves, and all your edges, all your perfect imperfection…”.

Le sorelle della sposa, a cui aveva fatto cenno il prete in chiesa, erano contente che anche Stefania fosse convolata a nozze. Valeria, la prima, aveva portato in dono al matrimonio della sorella l’invitato più piccolino, il suo bimbo di appena un mese, Leonardo Mario, che le dava un bel da fare, ma poteva contare sull’aiuto incondizionato di Vincenzo, suo marito. Roberta, la terza, anche lei accompagnata da marito e figlioletta, Chiara, raccontava a Noemi, la fidanzata di Cosimo, il fratello di Giovanni, che gli sposi si erano conosciuti proprio grazie a lei, ai tempi in cui lavorava nella cucina del ristorante Famiglia Principe. “Una sera, i miei genitori e Stefania vennero a cena al ristorante per salutarmi, e quella sera avvenne il fatidico incontro, dato che anche Giovanni lavorava lì, era l’estate del 2014…”.

Esattamente dieci anni fa un giovane cameriere si ritrovò in sala una splendida ragazza mora, dallo sguardo intenso.

I due si guardarono di sottecchi.
Si rividero ancora, quell’estate, a Marina di Vietri sul Mare, dove i ragazzi del ristorante erano soliti andare nel giorno di chiusura. E poi successe che arrivarono quell' anno, come ogni anno, le feste di Natale e Roberta invitò tutti i suoi colleghi a giocare a carte a casa sua. Giovanni e Stefania si scambiarono qualche parola, ma fu solo a metà febbraio dell’anno nuovo che uscirono insieme da soli per la prima volta. E aspettarono il primo giorno di marzo per mettersi finalmente assieme: dopo un film al cinema, che era già una dichiarazione di intenti, e tre "Adesso vado" di Stefania, sotto casa sua, Giovanni prese il coraggio a due mani e baciò la ragazza di cui si era innamorato. Tutto il tempo e lo spazio che vennero da quel momento in poi fra di loro furono vissuti alla prima persona plurale NOI...



Tornando al giorno delle nozze, ritrovai la farfalla blu, la riconobbi subito, anche se lei si era andata a posare su un'opera di ceramica, in mezzo ad altre farfalle, finte, ma lei era vera e appena mi vide riprese il suo volo, c'erano altre facce da esplorare da vicino, storie e aneddoti che qualcuno doveva ascoltare e poi scrivere affinché non si perdessero. E allora la mia farfalla guida mi spinse a fare una chiacchierata con Antonio, di anni 93, nonno paterno dello sposo. Antonio era un uomo lucido e autosufficiente. "Son contento che Giovanni si è sposato, è un bravo ragazzo, come i suoi fratelli e tutti i miei nipoti. Antonio, il fratello più grande di Giovanni, porta il mio nome, l'ho cresciuto io; i suoi genitori avevano una salumeria, e lui stava con me; gli cambiavo il pannolino, gli facevo da mangiare. Eh, la mia vita è stata lunga e ho avuto le mie disgrazie, mi ricordo la guerra come se fosse ieri, ma oggi non ci pensiamo, oggi è un giorno di festa...". "Questo qui si ricorda più fatti di me" s' intromise nel discorso un uomo che, a guardarlo bene in viso, non potei avere dubbi su chi fosse, "io mi dimentico un sacco di cose e lui, invece, ha una memoria di ferro" concluse Cosimo, figlio di Antonio, sotto lo sguardo sorridente di Anna, la figlia di sua sorella Rosaria. Ma Cosimo, in verità, dimenticava solo quello che non gli interessava, perché lui aveva la testa fra le nuvole da trent' anni, e volare col deltaplano era la sua gioia infinita, a tal punto che, quando non era in cielo disegnava i suoi voli, e non se lo scordava mica come si fa a spiegare le ali. I fratelli dello sposo erano uomini pratici, di poche parole e nessuna smanceria: Antonio aveva aperto le danze culinarie appena aveva visto che tutti gli invitati erano arrivati, pure se gli sposi ancora non c' erano, e Cosimo aveva guidato la Maserati con a bordo la sposa, e, a fine cerimonia, s' era preso personalmente a cuore la cassetta delle buste regalate a suo fratello e sua cognata. Fra gli amici, tutti belli, sorridenti e abbastanza bevuti, s' era fatto notare uno dai capelli rossi: aveva rubato il bouquet della sposa, quando lei l'aveva lanciato, e, ancora, aveva la piacevole accortezza di prendere 5, 6 calici alla volta e una bottiglia di vino e andare a piantare brindisi con gli altri invitati, anche con quelli conosciuti al momento. Spiccavano fra gli altri tre giovanotti, Emanuele, Mirko e Mariano, che s'erano inventati le cravatte con le facce buffe dello sposo. Insomma, un melting pot ben assortito di amici vecchi e nuovi, nocerini e resto del mondo. Dall’euforica partecipazione dei presenti, si intuiva che Giovanni e Stefania si facevano volere bene. 



E lui, poi, c' aveva questa cosa, che faceva bene al cuore a guardarla: Giovanni si preparava all'abbraccio, come un pugile sul ring che si mette in posizione, e poi affondava con tutto il corpo e la testa nell'anima dell'altro. E la sposa, meno espansiva, la stessa cosa la faceva con gli occhi: ti metteva dentro gli occhi suoi e sempre all' essenziale, all' anima, ti portava. La signora Rosanna, la matrona del ristorante in cui Giovanni lavorava prima di trasferirsi a Londra, aspettava quel ragazzone che tanto amava, al suo tavolo, come si aspetta un figlio che sta per partire. Si commuoveva se le chiedevi di lui, era uno dei suoi figli acquisiti; lei, così come suo marito Enzo fino all’ultimo dei suoi giorni, si erano rallegrati del suo passo, della strada che aveva fatto con la sua fidanzata. Fra canzoni, balli e pietanze che non finivano mai, giunse il momento di trasferirsi all' esterno, intorno alla piscina, dove Antonio Salvatore e il suo staff avevano srotolato un tappeto infinito di dolci, che ti riconciliavano col mondo già solo a guardarli e a odorarli. 

La festa volgeva al termine, ma la farfalla blu aveva ancora il suo da fare. Mi accompagnò a conoscere i genitori di Stefania, Immacolata e Vincenzo, felici di aver dato la figlia in sposa a un uomo così meraviglioso, e poi mi portò a chiacchierare con Anna, la mamma di Giovanni, la donna volitiva che per suo figlio s'era fatta un bel vestito e s'era messa il suo miglior sorriso sulle labbra, pure se da neanche 3 mesi aveva perso il compagno della sua vita. "Con Giovanni ci sentiamo tutti i giorni. Io preferisco la videochiamata, perché voglio vederlo, ma va bene anche la chiamata normale, oppure un vocale; anche sentire semplicemente la sua voce mi fa stare bene, e menomale che esistono i telefoni, altrimenti non so come farei. Peccato che non gli posso più inviare i generi alimentari; una volta io e mio marito gli abbiamo spedito un carico di 100 chili, con tutte le cose che piacevano a lui e Stefania: parmigiano, salami, panettoni...era il nostro modo di farlo sentire amato". E Giovanni l'aveva sentito, eccome se l’aveva sentito, tutto l'amore dei suoi genitori, perché l'aveva saputo restituire a tutti quelli che aveva incontrato nella sua vita. A sua moglie, prima di tutti, chè mai una donna fu tanto amata da un uomo su questa Terra, e poi agli amici, ai parenti, ai conoscenti. Il matrimonio volgeva al termine nello strepitio in cielo di stelle filanti e coni di luce colorati. Era giunto il momento di accommiatarsi con la bomboniera in mano. Ogni volta che mi voltavo a cercare gli sposi diventavano sempre più piccoli, due puntini luccicanti in un universo grandissimo e nuovo, in cui adesso avrebbero camminato ancora più stretti, con le fedi al dito.

Fu solo allora che realizzai che non c'era più la farfalla blu a indicarmi il tragitto, dov'era finita? Sorrisi quando mi ricordai dove l'avevo vista l’ultima volta: fra le trame del vestito di Anna, che aveva lo stesso colore delle sue ali. Era lì che era sparita, o meglio, era lì che era tornata, a casa sua”.

                                                                                                  Fine

                                                                             

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mercoledì 8 febbraio 2023

"Cinque figli e un lavoro in paradiso"



storia vera di Anna Giordano, scritta da Giovanna Sica e pubblicata cinque anni fa sul settimanale Confidenze

Il minestrone per il pranzo l’ho preparato. Per secondo ho tirato fuori dal congelatore le cotolette di tacchino. I panni li ho già separati e smacchiati, la signora delle pulizie deve solo far partire le lavatrici e poi per le altre faccende le ho lasciato tutto scritto in un post-it attaccato al frigo, come sempre. Filomena, la mia primogenita quindicenne, è andata a scuola a piedi; oggi ha un corso nel primo pomeriggio, quindi non torna per pranzo. Maria, la seconda, anni otto, è scesa col papà che la porterà  in macchina  alle elementari Santa Chiara. Federica, Francesca e Giuseppe, rispettivamente sei, quattro e due anni, li accompagno io all’asilo. Respiro. Tutto a posto. Posso correre a lavoro!

Mi chiamo Anna, 35 anni appena compiuti, sono felicemente sposata con Rosario, ho cinque figli e lavoro a tempo pieno all’ Eden, il centro estetico mio e di mio marito. Spesso le clienti, che arrivano da me trafelate durante la pausa pranzo, per un manicure o per farsi applicare le extension alle ciglia, mi chiedono come faccio, che superpoteri ho per tenere assieme una famiglia con cinque figli e un lavoro che mi impegna da mattina a sera. Io, di solito, abbozzo un sorriso timido e aggiungo che ho degli aiuti, ma loro non sembrano convinte, perché, spesso, le mie clienti di figli ne hanno solo uno, due al massimo, eppure sono sempre in affanno. Vorrei spiegargli che sono stata in affanno anch’io, che ho sofferto tanto per questa famiglia che ora stringo fra le mani. Che forse proprio perché sono stata tanto male, adesso la fatica quotidiana non mi pesa, o meglio, la fatica c’è, eccome se c’è: non arriva sera che non mi scopra distrutta e che io non mi chieda come ho fatto a conquistare il letto. Il fatto è che la mia è una felicità che mi è uscita dagli occhi, la fatica è passata in secondo piano.

Sono stata sempre molto giudiziosa, fin da bambina. Mai un colpo di testa, neanche durante l’adolescenza. Quando espressi il desiderio di voler frequentare la scuola di estetica, anziché l’istituto alberghiero, mia madre mi accontentò. Mio papà non era d’accordo: la mia famiglia ha un grande ristorante con terrazze panoramiche: il sogno del mio babbo era che tutti e quattro i suoi figli lavorassero nell’attività che avevano creato lui e sua moglie. Infatti, mia sorella e miei due fratelli  hanno frequentato la scuola alberghiera proprio per prepararsi a gestire il ristorante di famiglia. Solo che io, che pure aiutavo volentieri la mia mamma in cucina, c'avevo un altro sogno nel cuore, un sogno che aveva a che fare con lo scintillio degli ombretti, con la consistenza degli smalti. Un sogno che aveva lo stesso profumo delle creme che si stendono sul viso con massaggio delicato. Mi piaceva persino l’odore che emanava la cera, quando la riscaldavo per depilarmi. Mi piaceva più del sapore di ragù, che regnava nella cucina del ristorante dei miei genitori. Frequentai la scuola di estetica, ma gli accordi erano che avrei comunque lavorato assieme agli altri componenti della mia famiglia nella ristorazione: sarei stata estetista per hobby, mi sarei “divertita” a truccare le mie sorelle, le amiche, la mamma. Intanto a 15 anni mi fidanzai con un ragazzo che faceva il pizzaiolo in una città molto lontana dalla mia. Ci vedevamo due volte l’anno, così mi convinsi che l’unica soluzione per stare assieme fosse quella di sposarci: lui si sarebbe trasferito al mio paese e sarebbe diventato il pizzaiolo del nostro locale. Mi sposai a 18 anni e quando ne compii 20 cullavo fra le mie braccia Filomena. Solo che non riuscivo ancora a sentirmi felice e lo sapevo cos’era che mi mancava: io volevo fare il mestiere per cui avevo studiato. Convinsi i miei genitori (anche da sposata ero rimasta a vivere con loro che possedevano una casa molto grande) a permettermi di cercare un impiego in un centro estetico. Acconsentirono a un part-time. Così, 15 anni fa, misi per la prima volta piede dentro la stanza in cui sono appena entrata stamattina. Non mi pareva vero che finalmente potessi fare l’estetista! Solo che manco arrivai che il proprietario del centro ebbe qualche problema con la sua fidanzata, con cui all’epoca gestiva l’attività e, dopo solo due mesi che avevo cominciato a lavorare per lui, non lo vidi più. Dalla sera alla mattina. Sparito, non c’era più. Suo fratello Josè mi chiese se me la sentivo di prendere in mano la gestione del centro; senza pensarci su nemmeno un attimo, risposi di sì. Ce la potevo fare. Anche se ero molto giovane. Anche se non avevo esperienza. Anche se sarebbe stata dura far accettare ai miei genitori e a mio marito il mio nuovo impegno a tempo pieno. Ma quando una cosa la si desidera veramente, il modo per ottenerla lo si trova sempre. Io lo trovai. Ed ero soddisfatta, anche se oberata di lavoro. Il mio primo anno di permanenza all’Eden volò, ero tanto impegnata e tanto presa. Dai clienti. Dai corsi di formazione. Dai ritmi frenetici degli appuntamenti. Forse fu per questo che non ci badai molto quando il titolare fece di nuovo capolino dietro la scrivania all’ingresso. Era tornato. Rosario. Rosario, il mio futuro marito, solo che io,  allora, mica lo sapevo. Invece credo che lui fu s’innamorò subito di me, tanto è vero che cominciò immediatamente a farmi una corte serrata che io rifiutai con garbo fino a che riuscii. La verità era che anch’io mi ero innamorata di quel giovane uomo, ma, accipicchia, io ero l’ex bambina giudiziosa, quella che non si era mai concessa una follia manco a dieci anni, figuriamoci se potevo permettermela quando i mie anni erano raddoppiati, ed ero sposata e avevo una figlia. No no no. Come mi era venuta quella frenesia così mi sarebbe passata. E pensai di aver chiuso l’argomento con me stessa. Ma l’amore è dispettoso, quello se ne infischia di tutti i nostri buoni propositi, quello ti scoppia in petto e poi se la dà a gambe, come un bambino monello che fa esplodere un petardo e poi scappa e ti lascia lì, da solo, ad aspettare il botto, che sai benissimo che non potrai evitare neanche tappandoti le orecchie. Ecco, per me è così che è andata. Il mio amore per Rosario è stato ineluttabile, fosse dipeso da me mi sarei sottratta volentieri, pure perché lo sapevo in casa mia sarebbe venuto giù il mondo… Quando i miei genitori capirono che c’era un altro uomo nella mia vita, senza saper né leggere e né scrivere mi chiusero in casa. Da quel momento in poi avremmo fatto a modo loro. Non sarei più andata a lavoro. Me ne sarei stata buona a casa mia a crescere mia figlia, a dormire con mio marito e tutto si sarebbe sistemato. Seh seh. Che vuoi sistemare. Ma che vuoi rabberciare? Io ci provai, ci provai, non servì a nulla. L’assenza di Rosario era più forte di tutto. Ero stata costretta a lasciare il lavoro all’improvviso, mia madre aveva telefonato e aveva detto che non sarei più andata. E soprattutto aveva intimato al mio titolare di non cercarmi mai più. Forse anche lui come me ci provò. O forse Rosario non si applicò nemmeno, tanto già lo sapeva che non poteva dimenticarmi per assecondare la volontà della mia famiglia. Anche mia suocera provò a far ragionare il figlio. “E’ sposata, ha una bambina, la devi lasciar stare!” gli gridò. Non so esattamente cosa lui gli rispose, ma credo furono parole talmente belle e struggenti che Maria, sua madre, non se la sentì di replicare più nulla. Dopo qualche mese dall’esplosione della bomba, Rosario riuscì a farmi avere un cellulare da una nostra cliente che venne a trovarmi a casa, così riprendemmo a sentirci. Dimagrii tantissimo; ero sciupata, assente, apatica. Perché non me ne andavo? Non potevo. Avevo una gran paura che se abbandonavo la mia casa questo avrebbe inciso nell’affidamento di Filomena, durante  la separazione. Passarono non so come dieci mesi. Dieci mesi in cui, pur soffrendo tantissimo, non cedetti di un millimetro sulle mie posizioni. A inizio dicembre di undici anni fa, presi la mia bambina e me ne andai dalla casa dei miei genitori. Rosario aveva preparato un appartamento per me e lei; non si trasferì subito da noi, per non turbare ulteriormente la piccola che già aveva vissuto giorni difficili. Quello stesso dicembre tornai a fare visita ai miei parenti per augurargli di trascorrere un Buon Natale. Non ho mai interrotto i rapporti con i miei genitori, neanche nei momenti più difficili della mia storia, perché dentro di me lo sapevo che avevano agito a fin di bene, per proteggere il mio matrimonio, convinti che chiudendomi in casa sarei rinsavita e tutto sarebbe tornato come prima. Tuttavia, nelle mie visite a mamma e papà ero sempre da sola con mia figlia, Rosario non lo dovevo proprio nominare, se volevo continuare a frequentarli. E pure quando la presenza di Rosario nella mia vita cominciò a farsi notare in maniera indiscutibile, lui non era ospite gradito. Così, son passati Natali, anniversari e feste dei nipoti a cui dovevo partecipare sempre da sola. Da sola con Filomena e il pancione. Da sola con Filomena, Maria e il pancione. Da sola con Filomena, Maria, Federica e Francesca nel pancione andavo a sposarmi. Con Filomena, Maria, Federica, Francesca e Giuseppe, finalmente la mia famiglia accettò anche Rosario. Ogni volta che partorivo mia madre veniva a trovarmi in ospedale come se fossi stata una lontana parente e non sua figlia. Mi portava i fiori, mi chiedeva del parto. Ignorava Rosario, stava un poco e se ne andava. Poi, quando ero in grado di recarmi da loro ci rivedevamo. Così sono passati gli anni. Con me che andavo dai miei genitori. Col pancione, coi figli, ma non con l’uomo della mia vita. L’uomo per il quale la mia vita l’avevo cambiata. Stravolta. Capovolta. Accartocciata e poi risistemata. Però andavo sempre e non mi stancavo mai. Con la speranza che mi dicessero la prossima volta vieni con lui. Fino all’ultimo parto. Con l’arrivo di Giuseppe si son sciolti tutti i nodi. I miei genitori hanno dovuto capire per forza. Che quello che mi legava a Rosario era un amore grande. Un amore che aveva messo al mondo quattro figli. Il battesimo del mio piccolo principe l’abbiamo festeggiato al ristorante della mia famiglia. Fra le mura di quel posto a me tanto caro. Dove sono cresciuta e da dove è partita la mia piccola grande ribellione. Ora capirete bene perché quando le mie clienti mi chiedono come faccio a tenere tutto assieme mi viene da sorridere. Ho scalato montagne molto alte per ottenere questa felicità. E poi dalla cima mi sono buttata sicura che non sarei caduta, che non mi sarei fatta male. Sicura che l’amore aggiusta tutto. E così è stato. Ora mi vedo attraversare la mia vita in un campo di fiori. Sono in pianura, adesso, l’orizzonte è ben visibile e non fa più paura. Sono grata alla sorella di mio marito, per esserci stata sempre; Carmela, mia cognata, è infermiera presso l’ospedale in cui io ho partorito tutti i miei bambini. Ogni volta che son arrivate le doglie, lei si è messa in macchina con me e suo fratello, e mi è stata vicina fino a che non mi mettevano un altro figlio in braccio. Sono grata a mia suocera che mi ha accolto nella sua famiglia senza pregiudizi e senza riserve. Per lei sono stata da subito la donna che suo figlio amava e questo le è bastato a volermi bene. A sostenermi. Se oggi continuo a fare il lavoro che amo, e che mi impegna tanto, nonostante sia madre di cinque figli, lo devo a lei. A lei che dopo ogni parto, tempo 15 giorni, un mese al massimo, affidavo il nascituro di turno e riprendevo in mano l’organizzazione del centro. Lei si è occupata a tempo pieno dei mie bambini fino al compimento del primo anno di vita, quando erano pronti per frequentare l’asilo. Così come all’inizio della mia storia mia madre si prese cura di Filomena per permettermi di realizzare il sogno di fare l’estetista.

Ed ora, eccomi qui. Con questa giornata che è appena cominciata. Sono arrivata all’Eden, saluto le ragazze, mi prendo un tè verde alla macchinetta e vado a preparare la sala massaggio che fra dieci minuti dovrebbe presentarsi la prima cliente. Faccio partire il climatizzatore così la stanza sarà piacevolmente calda quando la signora P. si spoglierà; metto sul lettino un asciugamano pulito e la fascia monouso per i capelli. Accendo le candele. E’ tutto pronto. Do uno sguardo agli appuntamenti della giornata e sì, ricordavo bene: non potrò tornare a casa per il pranzo. Ieri ho inserito alle 13:30 la prova trucco per Sara che si sposa fra un mese ed è molto preoccupata, perché ancora non abbiamo deciso il make up per il giorno del suo sposalizio. Io ho provato a rassicurarla a telefono: “Sara, hai un naso piccolo e due occhi intensi dentro un ovale perfetto, sei giovane, che vuoi che c’abbiamo da provare? Io non voglio stravolgere il tuo viso con un trucco pesante. Io ti vedo sposa con uno chignon in testa e una passata di rimmel accompagnata da un velo di gloss”. Ma non devo averla convinta perché comunque ha insistito per raggiungermi oggi nella pausa pranzo. E vabbe’. Rosario e Maria se la caveranno benissimo anche senza di me. All’ una saranno messi solo due piatti sul tavolo della mia cucina: Filomena resta a scuola e Francesca e Giuseppe e Fede mangiano all’asilo. E poi, devo confessarvelo: il cuoco di casa mia è mio marito, non io! E’ lui che la sera cucina per tutti e sette, e la domenica, che viene a pranzo da noi anche la sua famiglia, Rosario si alza presto per preparare con cura il ragù. Per farmi perdonare l’assenza a pranzo, stasera ospiterò la tribù al completo nel lettone! Oddio, è sempre più difficile starci tutti, e poi Filomena si lamenterà che i fratelli vogliono vedere solo serie televisive da bambini e poi Maria e Federica si lamenteranno che i più piccoli vogliono vedere solo cartoni animati, io invece ho rinunciato da tempo a fare la mia proposta! Come sempre non ci metteremo d’accordo, non vedremo un bel niente. Filomena se ne andrà per prima per mettersi a chattare con gli amici, Maria la seguirà perché sua sorella grande è un mito per lei e adora emularla, Fede abbandonerà la nave per il troppo caldo. Resteremo io Rosario, Francesca e Giuseppe, e quando anche loro si lasceranno andare al tempo dei sogni, li prenderemo in braccio, uno io e l’altro mio marito, e, forse, finalmente, potremo starcene un po’ abbracciati anche io e lui.








giovedì 2 febbraio 2023

 Famiglia Principe


Questa è la storia di Enzo e Rosanna Principe, scritta da Giovanna Sica e pubblicata sul settimanale Confidenze circa 10 anni fa.




Enzo: -Rosanna, oggi mi sento un po’ scarico. Sii gentile, fammi un bel caffè. Non posso certo permettere che i nostri clienti mi trovino così abbattuto! No, i clienti sono sacri, e quando vengono da noi, io voglio che stiano bene. Solo grandi sorrisi. Lo sai, è da tanto tempo, ormai, che li riconosco più dalla voce che con gli occhi. Ma a loro non glielo faccio mai capire -

Rosanna: -Ecco il caffè. Però dopo vedi di dire due parole ai ragazzi, prima che li prenda a padellate! Il primo sarà tuo figlio: sono anni che gli dico di scrivere le ordinazioni più chiaramente, e sono anni che da un orecchio gli entra e dall’altro gli esce. A volte, mi fanno innervosire così tanto, tutti quanti, che vorrei togliermi il grembiule e andarmene…ma poi penso: “Dove vado io, lontano dal ristorante?”-

Enzo: -Dai, non ti arrabbiare per così poco! Stanotte ho sognato mio padre. Eravamo nella sua cantina. Quella specie di bettola dov’è nata la nostra tradizione di ristoratori, negli anni Quaranta. Mio padre, cestaio di professione, in certi periodi dell’anno metteva una frasca fuori alla cantina e quell’era il segno che la bettola era aperta. Che aveva qualcosa da offrire ai suoi clienti. Magari aveva lavorato il maiale o aveva preparato la soffritta da mangiare col pane di grano duro. Nel sogno, mio padre e io avevamo più o meno la stessa età. Eravamo seduti su un gradino. Lui, rompendo il silenzio, mi ha chiesto: -Enzo, pensi ancora che ne valga la pena? -. Ma io mi son svegliato e non ho fatto in tempo a capire di cosa stesse parlando. Secondo te che voleva dirmi? -

Rosanna: -Che voleva dirti, Enzo! Era solo un sogno. Ti ricordi quando venivi con tuo padre a fare l’erba per gli animali da zia Antonietta? Tu eri impacciato, io manco alzavo mai gli occhi dai fiori. Ma lui, tuo padre, Lorenzo Principe detto Peppe Pirulett’, mi scelse subito. Forse, prima che lo facessi tu. -Antonietta, dove la tenevi nascosta, questa bella figliola? – domandò la prima volta che mi vide. Tre anni dopo eravamo già sposati. Sei stato l’unico uomo della mia vita. All’epoca eri cameriere al ristorante Europa. Lì festeggiammo pure il nostro matrimonio. Io mi figuravo casalinga… E chi l’avrebbe mai detto, allora, che avrei passato quarant’anni, qua, dentro la cucina di un ristorante? -

Enzo: -Io invece lo sapevo già a undici anni che sarei diventato ristoratore. Quando cominciai a fare il garzone di ristorante, quello che oggi viene chiamato apprendista, desiderai subito averne uno tutto mio. E così quando i miei datori di lavoro mi proposero di prendere in gestione il ristorante Europa, accettai subito, insieme a mio fratello-

Rosanna: -“Tutto tuo”, appunto. Ma allora io che c’azzeccavo? Avevo vent’anni, un figlio da crescere e non avevo mai messo piede fuori di casa. Ero terrorizzata! Ma tu mi volesti al tuo fianco. Non feci scuole per cuochi, il mestiere me lo rubai con gli occhi, guardando tuo fratello. E poi tutti i collaboratori che sono passati nella mia cucina. Perché tutti hanno qualcosa da insegnare, anche l’ultimo arrivato-

Enzo: -In che anno prendemmo l’Europa? Era il 1973, vero? Ti ricordi che acquario troneggiava in mezzo alla sala? I clienti potevano sceglierseli vivi, i pesci. Preparavamo banchetti per matrimoni anche di duecento persone. A pranzo riempivamo la sala tre volte. Erano gli anni Ottanta, gli anni del benessere. Nella nostra clientela c’era di tutto, non ci facevamo mancare niente: dal guappo di strada al politico, passando per gli imprenditori; ma anche operai, impiegati, giornalisti, gente dello spettacolo-

Rosanna: -Gli anni correvano veloci. Quattro anni dopo il primogenito, Lorenzo, nacque Antonella. Forse, l’unico rimpianto che ho è proprio quello di aver goduto poco dei ragazzi, quando erano piccoli. Per il resto, non possiamo lamentarci: facevamo meravigliose vacanze a Ischia, week-end (che per chi fa questo mestiere non sono il sabato e la domenica ma il lunedì e il martedì!) in giro per l’Italia. Quando Antonella tira fuori le foto dei nostri viaggi, dice sempre ridendo: ”Mamma, però si vede proprio che ero una bambina ricca!”-

Enzo: -Poi sono arrivati i tempi duri. Il sogno dell’Europa svanì per noi nel 1993. Si era conclusa un’epoca. Si era messa la parola fine a un sodalizio. I ragazzi che, fino ad allora avevano avuto giorni spensierati, capirono subito che la nostra vita non sarebbe stata mai più la stessa. Riprendemmo a lavorare, inventandoci un piccolo club. Tuo padre e tua madre ci portavano le verdure che coltivavano nella loro terra, pur di farci andare avanti. Ci hanno sempre aiutato tanto. Che dici, li avremo ringraziati abbastanza? -

Rosanna: -Enzo, ma che vai a pensare stamattina! Ti pare che mio padre e mia madre volevano esser ringraziati? Loro volevano solo saperci felici-

Enzo: -E pensare che per i nostri figli non volevamo questa vita così sacrificata -

Rosanna- Forse è così che doveva andare. In fondo, fu Lorenzo che decise che non era finita. Io, quel giorno, non lo potrò mai dimenticare. È stato il giorno in cui nostro figlio è diventato grande. Rinchiuse in uno sgabuzzino la batteria, l’aeronautica e tutti i suoi sogni. Li mise via senza pensarci un attimo e si rimboccò le maniche assieme a sua sorella. L’hanno fatto per te. L’hanno fatto per amore-

Enzo: -Credi che non lo sappia? Spero solo sappiano quanto gli sono grato. Non so se gliel’ho mai detto -

Rosanna: -Enzo, ma che diavolo ti è preso oggi che vuoi ringraziare tutti? Scusa se te lo dico, ma stai proprio invecchiando! -

Enzo: -Forse è come dici tu. Sono già diciassette anni che siamo quassù, fra le braccia dei monti Lattari. Qui è nata la nostra seconda figlia femmina: Luna Galante. Ma non mi sento arrivato, questo è un mestiere in cui non si arriva mai al traguardo. Siamo passati per mille mode e tendenze e poi siamo tornati alla tradizione. Mi manca la vetrina del pesce sempre piena. E persino le nostre leggendarie litigate perché ne compravo sempre troppo! -

 

Rosanna: - La vetrina del pesce non la nominare nemmeno, ché tengo ancora la padella in mano! Ne compravi talmente tanto che era impossibile venderlo tutto e dovevamo mangiarcelo noi, per tre giorni di fila, e alla fine non era più nemmeno così fresco-

Enzo: - Mi sembra ancora di sentire le urla! Però che bello che i piatti della nostra tradizione siano tornati in voga nella versione classica, dopo tutte le possibili rivisitazioni-

Rosanna: -Perché anche la cucina fa i suoi giri. E un piatto che fino a un anno prima era richiestissimo, all’improvviso, non lo vuole più nessuno. Solo il nostro Scarpariello alla Principe non è mai diventato vintage! I nostri clienti sono trent’anni che lo mangiano e non si sono mica saziati! A noi rimane la soddisfazione di esser stati tra i primi ad aver fatto il sugo con i corbarini, i pomodorini di Corbara, e un pizzico di peperoncino. Semplice, ma inimitabile -

Enzo: -Ho imparato, in questi anni, a capire le persone da quello che mangiano. So quando sono qui per festeggiare e non vogliono badare a spese. So quando sono qui per porre fine a un amore, allora resto al loro tavolo meno possibile, perché hanno bisogno di star soli. So quando sono padri separati che vedono i figli nel fine settimana. So quando sono marito e moglie e so pure quando invece sono amanti. A volte, uno stesso cliente può venire con la moglie e poi, come se niente fosse, anche con l’amante, nella stessa settimana! Io non batto mai ciglio. Lorena te la ricordi? -

Rosanna: -Veniva spesso con uomini diversi –

Enzo: -“Enzo, ma non mi riconoscete mai!” esclamò una volta. Allora io le risposi: “Lorena cara, io so che stai entrando nel mio ristorante già solo dalla  tua inconfondibile risata che riempie le scale. Ma non posso sapere se il tuo accompagnatore sa che qui ci sei già stata. Se tu vuoi ci conosciamo, sennò è sempre la prima volta che ci vediamo!”  Lei capì. Annuì. Ringraziò con un sospiro. Il mio compito non è quello di assolvere o condannare i nostri clienti, per quello ci sono i preti. A me interessa solo che qui, in casa nostra, stiano bene. Se vogliono “confessarsi”, io li sto pure a sentire, ma deve essere un loro desiderio e mai una mia curiosità. Come quella volta che Agnese fu lasciata dal fidanzato con un bigliettino -

Rosanna: -Meno male che i clienti vengono a confessarsi da te. A me bastano i problemi dei miei ragazzi, quelli che lavorano con noi. Tu hai sempre detto che me li adotto tutti. Ma a volte sono gli eventi che me lo impongono. Perchè, magari, una mamma a casa non ce ’hanno. Perchè, a volte, c’hanno moglie e figli già a vent’anni, e non sanno nemmeno loro come sia successo -

Enzo: -Tu non solo decidi di adottarli tutti, ma poi pretendi pure che io gli faccia da padre putativo! Da quando in sala abbiamo Giovannino, il nostro gigante buono, non ci sono uova che bastino: finiscono tutte nella sua carbonara. A noi fai i piatti e a lui lasci direttamente la padella! -

Rosanna: -Alfonso invece ama i fusilli coi porcini. Ma devono essere quelli buoni! E se li merita, eccome! Dovessi andare io stessa a raccoglierli in montagna. Ma ti rendi conto che pazienza che c’ha quel ragazzo con nostro figlio, che gli fa smontare e rimontare il ristorante un giorno sì e l’altro pure? -

Enzo: - Però confessalo: Agostino detto Agostinelli è il tuo preferito -

Rosanna: -Agostino è come un figlio. È in cucina con me da ben 14 anni, e ne ha solo 28.Ti ricordi che, quand’era più piccolo, dormiva nel lettino affianco al nostro? Soprattutto d’estate, quando si finiva tardissimo la sera, lui preferiva dormire con noi. Come un figlio, appunto. Adesso ha smesso, s’è fatto grande. E poi c’ha sta’ bella fidanzata che lo aspetta!-

Enzo: -Però anche tu stai invecchiando. Non mi hai ancora detto se ti ricordi di Agnese e Stefano -

Rosanna: -Ma se mi sembra ieri che li vidi scambiarsi il primo bacio nel nostro parcheggio! Erano così belli assieme che facevano bene agli occhi. Poi qualcosa cambiò. Era come se continuassero a venire qui più per rassicurarsi che tutto andava bene, che per il piacere di passare la serata assieme -

Enzo: - A tavola non parlavano più. Non si guardavano nemmeno. Ognuno restava dalla sua parte. Non c’erano più le loro mani strette sul tavolo. Mangiavano in fretta e scappavano via, subito dopo. E poi, quell’ultima sera che vennero insieme, Stefano scappò via da solo. Era estate, stavano cenando sul terrazzo piccolo. Agnese salì le scale per andare al bagno al piano di sopra e lui le lasciò un bigliettino sul tavolo e se ne andò. Quando la vidi piangere, da sola, col bigliettino in mano, non sapevo che fare. Poi fu lei a togliermi dall’imbarazzo. Mi invitò a sedermi un attimo, che poi divenne un’ora e mezza in cui Agnese tirò fuori tutto quello che avrebbe voluto dire a Stefano, ma non ne aveva avuto il tempo. O forse il coraggio. La consolai. Trovai le parole giuste, quelle che avrei detto a nostra figlia -

Rosanna: -E poi ci toccò pure di riaccompagnarla a casa! Dopo quanto tempo tornò? -

Enzo: -Circa un anno dopo. Raggiante con un altro fidanzato. E deve esser stato proprio quello giusto, se poi si sono sposati, e quando vengono, adesso, c’hanno pure due ingombranti passeggini con loro! Stefano invece non s’è più visto -

Rosanna: -A volte, quando la sera mi metto a letto mi chiedo dove l’ho trovata la forza che mi è servita, in questi quarant’anni. Pensavo di fare la casalinga e poi mi sono ritrovata a gestire un ristorante, i figli, i dipendenti. I clienti che vengono in cucina a salutarmi e vogliono sentire una delle mie battute. Io cerco di non deluderli mai, anche quando ho altre cose per la testa e mi andrebbe di starmene un po’ da sola. E non sempre in piazza, sempre sul carrozzone del circo. Ma questo è il prezzo da pagare: questa vita vissuta così tanto mi ha dato e tanto mi ha tolto. Chissà se Antonella deciderà di percorrere la mia stessa strada, adesso che pure lei è mamma e sta iniziando a capire qual è il prezzo da pagare. Io che posso dirle? Continua? Scappa più lontano che puoi fin che se in tempo? Io credo che lei  abbia già scelto la sua strada, forse l’unica possibile, anche se non è vero che si sceglie sempre. A volte la vita ti porta dove decide lei -

Enzo: - Hai ragione, Rosa, tanto ci ha dato, questa vita vissuta così, e tanto c’ha tolto -

Rosanna: -Sì, Enzo, però non pensarci proprio a ringraziare pure me, che con me non te la cavi con così poco! -

Enzo: - Lo so. A te devo fare una statua d’oro giù nel parcheggio. Ci farò scrivere sotto: “Alla mia donna grande...in tutti i sensi!” -

Rosanna: -Vedo che la voglia di sfottere però non ti è passata mica! -

Enzo: -No, per fortuna. Che ne dici della nostra ultima sfida?-

Rosanna: - “Nu’ murzill’ “? Dico che tu e tuo figlio c’avete “la capa fresca”! -

Enzo: - No, perché? Nu’ murzill’ è il passato che ritorna. Il boccone dell’amore, quello che una volta le mamme si toglievano di bocca per darlo ai figli. E forse con l’austerità di questi anni, sarà ancora così -

Rosanna: - Sì, bello assai, quasi mi commuovo. Però sono io che ogni santo giorno devo preparare un piatto tipico con prodotti della nostra terra. Piatti semplici, come la frittata di maccheroni con la sugna o la minestra maritata, ma che richiedono tempo e cura-

Enzo: -Ma servirà per tenerci stretti i sapori della domenica della nostra infanzia. Lo sai che Lorenzo non ci dorme la notte per queste cose -

Rosanna: -Guarda che quello non dorme perchè c’ha Vincenzo di cinque anni, Ernesto di otto mesi e la moglie di nuovo incinta. Ah, sembra proprio che stavolta Annamaria aspetti una femmina!

Enzo: -Speriamo, sennò la vedo proprio messa male con tre figli maschi più il marito! -

Rosanna: - Caro Enzo, non so da dove è arrivata stamattina tutta questa nostalgia del passato. Forse davvero ci stiamo facendo vecchi. Sappi solo che tornassi indietro io rifarei tutto. Lo rifarei per te, perché so che sei felice di questa vita che sta passando fra le mura del nostro ristorante, nonostante gli affanni. Dai, ora vatti a riposare un po’, chè stanotte hai dormito poco e male -.




Rosanna torna in cucina, chè li c’ha sempre i rosari delle verdure che l’aspettano. Enzo s’affaccia in sala, gli piace vederla preparata, coi bicchieri che splendono sui tavoli e i fiori proprio al centro. E poi sente come un richiamo, qualcosa lo spinge a voltarsi. Non gli si palesa suo padre, però sente la sua presenza nell’atrio del ristorante. Allora gli dà la risposta che non aveva fatto in tempo a dargli in sogno…

“Papà, sì che ne è valsa la pena. Dovessi rinascere cento volte, cento volte rifarei questo mestiere. Nonostante i pensieri, le preoccupazioni, gli affanni, questo mestiere mi ha reso felice. L'ho portato avanti con passo leggero. Col sorriso. Se stanotte mi sei venuto in sogno e mi hai portato nella tua cantina per mettere sulla tua vecchia bilancia le gioie e i dolori di questi miei anni, ti dico subito che le prime sono state di più. Fra soddisfazioni e delusioni, le prime hanno avuto la meglio. Ti posso dire, papà, con tanta umiltà, che anche se non sono diventato ricco, ho lasciato un segno nella ristorazione. Ho creato un precedente: rimango il figlio del cestaio, ma sono anche Enzo Principe, il padre del linguino alla Principe. Stappo una bottiglia di vino e brindo a te. Alla famiglia Principe e alla vita in sé” e poi, sorridendo, si mette in testa il cappello da regista che tanto gli piace, e se ne va su, a riposarsi.


Giovanna Sica

sabato 5 marzo 2022

 





Lucio Dalla, “Il profeta bambino”

di Giovanna Sica, articolo pubblicato su Confidenze, Stile Italia Edizioni, n.16 – 6 aprile 2021

 

 

Quando sei nato lo sa tutto il mondo: 4/3/1943 è il titolo della tua canzone forse più famosa, e io sono sempre stata tanto fiera di condividere con te il giorno del mio compleanno.

La prima volte che sali su un palco hai tre anni. A sette, sei già orfano di padre. Mamma Iole, modista bolognese, è una presenza forte e contraddittoria. La scuola non fa per te, sei troppo irrequieto. A 10 anni ti regalano il clarinetto, un lustro dopo sei già un jazzista. Ti esibisci nei locali e all’uscita ti metti a parlare con barboni e prostitute. Sei affamato di facce, non dormi mai. Nel 1960, con la Rheno Dixieland Band parteci al Primo Festival europeo del Jazz e lo vinci. Gino Paoli, conosciuto al Cantagiro 1963, intuisce il tuo genio e ti propone per Sanremo, tre anni dopo. Presenti una canzone originale Pafff…Bum ma troppo avanti per i tempi.

Brani e sentimento

Sei



al Festival anche l’anno successivo, con un testo che si rivelerà beffardo. Luigi Tenco si toglie la vita durante quella edizione; spudoratamente la gara continua e tu intoni Bisogna saper perdere. S’affaccia il ’68 col suo carico rivoluzionario; gli altri artisti prendono posizioni politiche, tu no. “Sono uno che canta come sente” dichiari. E sei anche un uomo di fede; Padre Pio, conosciuto da bambino giù in Puglia, è una figura di riferimento. È in questo periodo che incontri il giovane Rosalino Cellammare, che poi diventerà per tutti Ron. Prendi casa alle isole Tremiti e lì componi la musica per Gesubambino, su testo immaginifico di Paola Pallottino, illustratrice e poetessa. “Dice che era un bell’uomo e veniva, veniva dal mare/ Parlava un’altra lingua, però sapeva amare”. Partono le trattative con la Rai per portarlo a Sanremo: vengono censurati il titolo e due strofe. Con 4/3/1963 conquisti il terzo posto e il grande pubblico. Segue l’album Storie di casa mia in cui emerge il brano squassante, ancora di Paola, Il gigante e la bambina. Torni all’Ariston nel 1972 con Piazza Grande, un pezzo meraviglioso, ma guadagni solo l’ottavo posto. Hai trent’anni quando ti presentano il poeta Roberto Roversi. Lui scrive i versi per il disco Il giorno aveva cinque teste, tu le musiche. Canti i danni dello smog. Gli emigranti e gli operai che muoiono sul lavoro. Il disco vende pochissimo, ma tu ti sei sorpassato ancora una volta: ti importa scuotere le coscienze. Seguono altri due album con Roversi, Anidride solforosa e Automobili, una trilogia di grande valore artistico. Poi finisce l’intesa anche col poeta. Hai suonato il jazz, cantato brani scemi, popolari e impegnati. Hanno scritto per te parolieri (Bardotti e Baldazzi) e poeti. E adesso, che ti inventi, Lucio? È il momento di cantare le tue emozioni, le tue visioni.

Talento visionario

Riparti dallo scippo di tuo padre per arrivare alla violenza che esercitano i potenti sui deboli. “È inutile, non c’è più lavoro/ Non c’è più decoro/ Dio o chi per lui/ Sta cercando di dividerci/ Di farci del male /Di farci annegare”, Com’è profondo il mare, da cui prende il nome il tuo primo disco da cantautore, è l’anno 1977. Due anni dopo esce “Lucio Dalla” ed è un successo senza precedenti. “Si esce poco la sera, compreso quando è festa/ E c’è chi ha messo dei sacchi di sabbia vicino alla finestra/ E si sta senza parlare per intere settimane/ E a quelli che hanno niente da dire del tempo ne rimane”, L’anno che verrà. 42 anni dopo fanno tremare queste tue strofe profetiche. Arriva il momento di un tour indimenticabile con Francesco De Gregori, Banana Republic. E poi l’estate dell’80; sei a Roma e vederla finalmente a festa, ubriaca di gente, ti fa mettere al pianoforte e tirare fuori: “Si muove la città/ Con le piazze e i giardini e la gente nei bar/ Galleggia e se ne va/ Anche senza corrente camminerà”. Prendi una serata come tante e la fai diventare La sera dei miracoli; in questa ballata visionaria Roma se la porta via il mare. Il terzo album tutto tuo, lo chiami semplicemente Dalla e dentro ci troviamo le tue canzoni più belle di sempre. Balla balla ballerino. Cara. Futura, scritta su una panchina su cui ti siedi a guardare il Muro di Berlino. Immagini due fidanzati divisi da quello sbarramento di cemento armato; non hanno paura del futuro, tanto è vero che fanno l’amore e pensano a un figlio, una femmina, a cui vogliono dare un nome che è una dichiarazione d’intenti. Sei consapevole di avere fantasia, talento e voglia di libertà. Viaggi organizzati esce nel 1984 con la tua casa discografica, la Pressing; è un album in cui si sente l’influenza della musica dance e della tua curiosità per il mondo telematico. L’anno dopo fai un disco a cui dai un titolo che la sa lunga: Bugie. Tu che da sempre infarcisci la vita di frottole, decidi, col candore di un bambino, di sbugiardarti. E poi succede che Catarro, la tua barca, va in avaria vicino a Sorrento e tu chiedi ospitalità al Grand Hotel Excelsior Vittoria. Vuoi vedere la suite di Caruso, e una volta lì dentro ci vuoi restare. A cena ti raccontano la leggenda del grande tenore che, anche se convalescente, ogni sera, al tramonto, si faceva portare il pianoforte in terrazza e riempiva l’aria con la sua voce magnifica, con il suo canto era per una donna di cui si era innamorato. Lo immagini struggersi e finire i suoi giorni onorando la vita, “Ma quando vide la luna uscire da una nuvola/ gli sembrò più dolce anche la morte”. Caruso è un successo mondiale.

Il 4 luglio del 1988 parte un tour magico con l’amico Morandi: l’elfo delle favole e il ragazzo senza età finalmente insieme. A settembre del 1990 esci con Cambio. Con Attenti al lupo ancora una volta spiazzi tutti, ma adesso lo fai con disinvoltura: non devi più dimostrare niente, puoi permetterti di giocare, e poi di colpo tornare serio, e così fai con Henna, l’album successivo. Hai intuizioni che assecondano i tuoi frenetici mutamenti di pelle, accade anche in Canzoni. Saluti il Novecento con Ciao e inauguri il nuovo millennio con uno show televisivo, in prima serata su Rai Uno, con Sabrina Ferilli, La bella e la Besthia, e un musical: Tosca: amore disperato. Sei avido di novità, di sorpassi. Sei sempre circondato da amici. Sei Domenico Sputo, il tuo alter ego che suona il sax nelle canzoni degli artisti scoperti da te, come Luca Carboni e Samuele Bersani. Sei un maghetto e forse non ti fermi mai perché lo senti che non avrai una vita lunga. Raggiungi il Cielo il primo marzo 2012. Ed è lì che mi piace immaginarti, a guardare da questa parte col solito lampo negli occhi e la tua perenne curiosità. Mentre ci dici, come hai scritto: “È da quello squarcio di cielo e di cuore che vi ascolterò anche quando nessuno mi vorrà ascoltare… É da lì in alto, fino a quando ci sarà una finestra, che il mio cuore continuerà a cantare la vita e la storia che la prende”.

 

 

domenica 13 febbraio 2022

Covid e altri impazzimenti

 


“Covid e altri impazzimenti” di Giovanna Sica

 

Il Covid mi ha raggiunto nello spazio stretto di un camerino in cui stavo misurando un paio di pantaloni. In una gamba avevo i pantaloni miei, nell’altra quelli nuovi. Ha squillato il cellulare. Due volte. Il cellulare era nella profondità oscura della borsa. Avevo le mani impegnate, la mascherina spiaccicata sulla faccia. Non riuscivo a trovarlo, ma quello non smetteva di suonare. “Sono positivo”. “…”. “Hai capito?”. “Arrivo”. “Signora, vuole vedere anche un cardigan da abbinare su questi pantaloni?” echeggia da lontano la voce della commessa. E come glielo spiego, adesso, a questa gentile signorina, che vorrei lasciarle qui pure i pantaloni che fino a due minuti fa mi piacevano tanto? “No, devo andare, mi faccia pagare, per favore”. Pago e dall’ansia che mi è salita faccio cascare l’aggeggio del bancomat. Mi scuso. Esco dal negozio e realizzo che mi illudevo che a noi non sarebbe successo, ché siamo stati sempre tanto attenti e rispettosi delle regole. Realizzo che ho paura perché il Covid fa paura, anche dopo due anni e i vaccini. Che beffa. Mio figlio aveva la terza dose dopodomani. Non l’aveva ancora fatta perché stavamo aspettando che passasse del tempo dalla seconda dose di vaccino contro il Papilloma virus, ché quando ho scoperto che si possono vaccinare anche i maschi contro il Papilloma (anche i maschi che per età il vaccino non glielo passa l’ASL, alla piccola -si fa per dire- cifra di 210 euro in tre comode rate), ho pensato che era giusto immunizzare contro il Papilloma anche il Diciassettenne. Raggiungo mio figlio, al netto del mal di schiena e un po’ di spossatezza, sta bene. Non ha febbre. Un pensiero cattivo mi fa subito un calcolo a mente che nessuno gli ho chiesto: son passati più di sei mesi dalla seconda dose, chissà se il ragazzo ha ancora gli anticorpi o è completamente indifeso contro Omicron. Sdrammatizzo col Positivo e ce ne andiamo subito a casa. Lui si va a barricare in camera sua, io provvedo a mettere da lavare i suoi panni e tutto ciò che ha toccato negli ultimi giorni. Scende una prima notte che mi scopre a guardare il soffitto. Non voglio abbandonarmi al sonno, ho paura che succeda qualcosa a mio figlio mentre io dormo. Il secondo giorno arriva il mal di gola. Informo il medico di base via Whatsapp che da questo momento inizia a seguirlo. Il terzo giorno sopraggiunge la tosse. La tosse mi fa paura, ma, ringraziando Dio e il vaccino, dura solo tre giorni. Il quarto giorno c’è un gran sole. Ne approfitto per pulire e disinfettare con più enfasi. Mi manca giusto scrostare i muri e poi posso dire di aver sanificato ogni angolo dell’appartamento. Il pomeriggio del quinto giorno porto a fare il tampone alla figlia undicenne che torna a scuola dopo 14 giorni di Dad, dovuti alla positività di due compagni di classe. Già che son qui, già che ho fatto la fila, quasi quasi un tampone lo faccio anch’io (lo avevamo fatto anche il giorno dopo che era risultato positivo il Diciassettenne, ormai viviamo sotto lo strozzo della farmacia) ché mi pizzica un po’ la gola; sicuramente dipende dal fatto che ieri sono stata tutta la mattinata al vento e al sole, e comunque nessuno mi obbliga: lo Stato ha decretato che io e mio marito, che abbiamo fatto anche la booster, dobbiamo solo praticare l’auto-sorveglianza e continuare a indossare la Ffp2. E se invece fossi positiva anch’io? Come faccio a mandare mia figlia a scuola con questo dubbio? Negativa mia figlia, positiva io. Meno male che ho seguito il mio istinto. La preoccupazione per la mia carne non è certo quella che ho provato per mio figlio; e poi io ho fatto la terza dose, 10 giorni fa. Non posso finire in terapia intensiva. E soprattutto non posso morire. Sono preoccupata invece per la Undicenne, a questo punto potrebbe positivizzarsi pure lei, e anche se ha completato la copertura vaccinale, vorrei proprio che se lo risparmiasse. Siamo in pareggio nella mia famiglia: due positivi e due negativi. Dobbiamo isolarci tutti, neanche i due negativi possono più stare assieme, adesso ognuno di noi deve giocarsi la sua partita, e speriamo che non vinca il nemico. Io lamento mal di gola e un po’ di febbre, i primi tre giorni. Poi solo spossatezza, raffreddore, sintomi tipo influenza, che se non fosse che il Covid ha fatto quello che ha fatto negli ultimi due anni, non sarebbe niente di che; insomma, le pareti di casa mia hanno visto influenze molto più toste, con febbri a 40° che bruciavano sulla fronte dei figli, che si son portate via un bel po’ della mia salute. Continuano i lunghi scambi epistolari col medico di famiglia. Se conto le battute, sono sicura di aver scritto di più a lui negli ultimi 13 giorni che a mio marito, in vent’anni che stiamo assieme. E mentre Mahmood e Blanco cantano “A volte non so esprimermi”, penso che io invece so esprimermi benissimo, con dovizia di particolari, ed è una fortuna, considerato che solo a parole posso spiegare tutti i sintomi alla persona che ci sta curando a distanza, persona che se mette assieme tutti i miei Whatsapp può pubblicare per me il mio secondo romanzo. Devo dire che il dottore, Giovanni Brengola, a questo punto mi pare cosa buona e giusta citarlo con nome e cognome e ringraziarlo, mi risponde sempre. E se all’inizio mi pare brutto disturbare la sera o di domenica, poi succede sempre qualcosa su cui voglio confrontarmi con lui, e lui, puntuale e disponibile, mi scioglie ogni dubbio.  Meno male che leggo e scrivo, sennò come mi passerebbe il tempo stipata nella mia cameretta? Meno male che è la settimana del Festival e della leggerezza sanremese. Peccato che devo stare lontano dalla ragazza mia. Il nostro rituale della sera prevede che ce ne stiamo avvinghiate nel lettone a vedere le nostre fiction del cuore, e lo stesso facciamo ogni anno con Sanremo. Quest’anno ci arrangiamo a stare assieme in video chiamata. Chiedo a mio marito di sbloccare le limitazioni al cellulare della Undicenne, per il fine settimana, chè io e lei abbiamo un Festival da seguire e possiamo farlo solo via Whatsapp. Mi fa una grande tenerezza Bianca, la mia adorata cagnolina, che non si capacita che non faccio entrare neanche lei in camera mia. Fa il giro del balcone e viene a fare la laconica davanti alla mia porta finestra. A volte faccio pensieri scemi, soprattutto quando cala il buio e non ci sono manco più gli alberi e i passanti in strada a farmi compagnia. Tipo che è colpa mia che io e mio figlio ci siamo presi il Covid, visto che qualche giorno primo ero andata a comprare per me e lui i pigiami nuovi, et voilà: ci sono serviti subito. Ma il pigiama, poi, l’ho preso anche al marito, ora che ci penso. Si positivizzerà anche lui? Ma no, gli AstraZeneca+Pfizer sono i più forti di tutti. Comunque non ho perso l’olfatto, l’odore del soffritto del coinquilino adulto si spande in tutta casa e si infila pure sotto la mia porta! E pensare che nella mia vita da negativa l’olio evo non s’è mai arricciato in una mia padella! E che ai figli al pomeriggio preparavo delle gran tagliate di frutta fresca e secca per mantenerli in buona salute (comunque alla merenda sana sta continuando a provvedere il papà). Ma veniamo al rapporto con l’USCA, cioè il rapporto che una famiglia come la mia, spaccata in due dal Covid, dovrebbe avere con le Unità Speciali di Continuità Assistenziale, create appositamente nel marzo 2020 per gestire a domicilio i pazienti sospetti o accertati Covid-19 che non necessitano di ricovero ospedaliero. L’USCA si è palesata nelle nostre vite -dopo 9 giorni dalla positività accertata di mio figlio- con una telefonata in cui chiedeva al ragazzo se il tampone di controllo io e lui preferivamo farlo assieme l’8 febbraio (due giorni prima per me, che ci poteva stare visto ché nel frattempo un nuovo decreto aveva accorciato la durata dell’isolamento) o il 10 (due giorni in più di reclusione per lui, che quando hai 17 anni e stai chiuso nella cameretta da 10 giorni equivalgono a due anni). A parte il fatto che uno si chiede come mai L’USCA contatti un minorenne per discettare su tali questioni e non la sua genitrice, tra l’altro positiva pure lei, ma, poi, nonostante il minorenne e il padre del minorenne, che interviene nella conversazione, diano la migliore risposta possibile: “Chiedete a mia madre, chiedete a mia moglie”, l’Unità Speciale torna a eclissarsi nel buio da cui era emersa. Cerco i numeri telefonici dell’USCA, passo solo -si fa per dire- due ore e quaranta della mia vita a tentare di richiamare, ma ahimè, è più facile parlare col Padreterno che con l’USCA. Eppure non siamo più nel vortice di fine anno scorso, il numero dei contagi è calato. Tant’è. Mi piglia una crisi di nervi. Ma poi mi ricordo che devo stare calma, respira Giovanna, respira profondamente e medita ché se ti viene il sangue amaro ti si abbassano le difese immunitarie e Omicron ti mangia in testa. Optiamo ancora una volta per un tampone a pagamento per mio figlio. Negativo, evviva Dio. Giorno successivo, tampone, sempre a pagamento, per la Undicenne. Negativo. Evviva evviva evviva. I miei figli tornano a scuola, sono felice. Io resto nella mia cameretta, e sento che adesso sono davvero sola. Il nemico secondo me se ne è andato. Ma non posso esserne certa fino a dopodomani che farò un altro tampone, il primo, seddiovuole, a cui provvederà l’USCA. Al netto della paura, dei sintomi influenzali, dell’esaurimento nervoso e di una barca di soldi in tamponi, integratori e antinfiammatori, sto bene. Stiamo tutti bene. Grazie ai vaccini ce la siamo cavata a buon prezzo. A chiusura di questo racconto, anche esilarante, ma che dice molte cose a chi le vuol capire, non posso non dedicare un pensiero a tutti quelli che hanno perso la vita a causa di questo maledetto virus. E anche a tutti quelli che hanno perso una persona cara senza averla potuto nemmeno accompagnare nell’ultimo viaggio.

Vi abbraccio, forte, chè nel frattempo di sicuro mi sono negativizzata.

P.S. E invece sono ancora positiva, o almeno lo ero fino a tre giorni fa che ho fatto il tampone con l’USCA. E dopo 26 ora circa ho ricevuto il tanto sospirato risultato. Purtroppo non quello sperato. A questo punto posso decidere di continuare la reclusione in cameretta per un’altra settimana (più un giorno o forse due per aver l’esito, l’USCA si prende fino a 48 ore per comunicarmelo) e rifare il tampone molecolare, oppure recarmi in farmacia e praticare quello antigenico il cui esito, che arriva di solito in mezz’ora, è equiparato a quello molecolare, sia per decretare la guarigione sia per riattivare il Green Pass, il tutto al piccolo -si fa per dire- prezzo di 15 euro. Bah, sarò io che sono offuscata dal raffreddore persistente e da Omicron, ma mi viene spontaneo chiedermi: perché non provvedono le ASL ai tamponi antigenici snellendo le quarantene, e non facendo perdere più tempo -e soldi- del necessario alle persone già provate dal Covid e dall’isolamento fiduciario? Se non avessi provveduto a fare i tamponi in farmacia ai miei figli, avrebbero perso altri giorni di scuola in presenza, e i discenti, soprattutto quelli campani, banchi, lavagne e facce dei compagni di classe, negli ultimi due anni li hanno visti solo attraverso uno schermo. E se io proprio non avessi potuto permettermeli i test a pagamento? Mi sa che li investo altri 15 euro in un altro tampone antigenico, sperando che sia l’ultimo, non è concepibile pensare di stare altri otto giorni in isolamento: che valore ha il mio tempo per chi mi governa? E poi, i due infermieri che si alternano nella farmacia in cui vado di solito sono gentilissimi e ti passano con estrema delicatezza solo la punta dell’asticella nella narice, tipo cotton fioc. E non è vero che se non ti arrivano al cervello il Covid non lo sbugiardano. Il giorno che son risultata positiva, l’infermiere mi aveva fatto solo un piccolo giretto nella parte più esterna delle narici, e, dopo 10 minuti, ero ancora lì a comprare la Vitamina C e altri integratori, la farmacista mi ha chiamato in disparte e mi ha comunicato l’esito.

E quindi anche sabato e domenica stipata nella cameretta, vado a fare il tampone domani, lunedì 14 febbraio, San Valentino, sperando che Amore mi strappi di dosso -per sempre- questo fottutissimo figlio di puttana (scusate il francesismo in chiusura).