domenica 13 febbraio 2022

Covid e altri impazzimenti

 


“Covid e altri impazzimenti” di Giovanna Sica

 

Il Covid mi ha raggiunto nello spazio stretto di un camerino in cui stavo misurando un paio di pantaloni. In una gamba avevo i pantaloni miei, nell’altra quelli nuovi. Ha squillato il cellulare. Due volte. Il cellulare era nella profondità oscura della borsa. Avevo le mani impegnate, la mascherina spiaccicata sulla faccia. Non riuscivo a trovarlo, ma quello non smetteva di suonare. “Sono positivo”. “…”. “Hai capito?”. “Arrivo”. “Signora, vuole vedere anche un cardigan da abbinare su questi pantaloni?” echeggia da lontano la voce della commessa. E come glielo spiego, adesso, a questa gentile signorina, che vorrei lasciarle qui pure i pantaloni che fino a due minuti fa mi piacevano tanto? “No, devo andare, mi faccia pagare, per favore”. Pago e dall’ansia che mi è salita faccio cascare l’aggeggio del bancomat. Mi scuso. Esco dal negozio e realizzo che mi illudevo che a noi non sarebbe successo, ché siamo stati sempre tanto attenti e rispettosi delle regole. Realizzo che ho paura perché il Covid fa paura, anche dopo due anni e i vaccini. Che beffa. Mio figlio aveva la terza dose dopodomani. Non l’aveva ancora fatta perché stavamo aspettando che passasse del tempo dalla seconda dose di vaccino contro il Papilloma virus, ché quando ho scoperto che si possono vaccinare anche i maschi contro il Papilloma (anche i maschi che per età il vaccino non glielo passa l’ASL, alla piccola -si fa per dire- cifra di 210 euro in tre comode rate), ho pensato che era giusto immunizzare contro il Papilloma anche il Diciassettenne. Raggiungo mio figlio, al netto del mal di schiena e un po’ di spossatezza, sta bene. Non ha febbre. Un pensiero cattivo mi fa subito un calcolo a mente che nessuno gli ho chiesto: son passati più di sei mesi dalla seconda dose, chissà se il ragazzo ha ancora gli anticorpi o è completamente indifeso contro Omicron. Sdrammatizzo col Positivo e ce ne andiamo subito a casa. Lui si va a barricare in camera sua, io provvedo a mettere da lavare i suoi panni e tutto ciò che ha toccato negli ultimi giorni. Scende una prima notte che mi scopre a guardare il soffitto. Non voglio abbandonarmi al sonno, ho paura che succeda qualcosa a mio figlio mentre io dormo. Il secondo giorno arriva il mal di gola. Informo il medico di base via Whatsapp che da questo momento inizia a seguirlo. Il terzo giorno sopraggiunge la tosse. La tosse mi fa paura, ma, ringraziando Dio e il vaccino, dura solo tre giorni. Il quarto giorno c’è un gran sole. Ne approfitto per pulire e disinfettare con più enfasi. Mi manca giusto scrostare i muri e poi posso dire di aver sanificato ogni angolo dell’appartamento. Il pomeriggio del quinto giorno porto a fare il tampone alla figlia undicenne che torna a scuola dopo 14 giorni di Dad, dovuti alla positività di due compagni di classe. Già che son qui, già che ho fatto la fila, quasi quasi un tampone lo faccio anch’io (lo avevamo fatto anche il giorno dopo che era risultato positivo il Diciassettenne, ormai viviamo sotto lo strozzo della farmacia) ché mi pizzica un po’ la gola; sicuramente dipende dal fatto che ieri sono stata tutta la mattinata al vento e al sole, e comunque nessuno mi obbliga: lo Stato ha decretato che io e mio marito, che abbiamo fatto anche la booster, dobbiamo solo praticare l’auto-sorveglianza e continuare a indossare la Ffp2. E se invece fossi positiva anch’io? Come faccio a mandare mia figlia a scuola con questo dubbio? Negativa mia figlia, positiva io. Meno male che ho seguito il mio istinto. La preoccupazione per la mia carne non è certo quella che ho provato per mio figlio; e poi io ho fatto la terza dose, 10 giorni fa. Non posso finire in terapia intensiva. E soprattutto non posso morire. Sono preoccupata invece per la Undicenne, a questo punto potrebbe positivizzarsi pure lei, e anche se ha completato la copertura vaccinale, vorrei proprio che se lo risparmiasse. Siamo in pareggio nella mia famiglia: due positivi e due negativi. Dobbiamo isolarci tutti, neanche i due negativi possono più stare assieme, adesso ognuno di noi deve giocarsi la sua partita, e speriamo che non vinca il nemico. Io lamento mal di gola e un po’ di febbre, i primi tre giorni. Poi solo spossatezza, raffreddore, sintomi tipo influenza, che se non fosse che il Covid ha fatto quello che ha fatto negli ultimi due anni, non sarebbe niente di che; insomma, le pareti di casa mia hanno visto influenze molto più toste, con febbri a 40° che bruciavano sulla fronte dei figli, che si son portate via un bel po’ della mia salute. Continuano i lunghi scambi epistolari col medico di famiglia. Se conto le battute, sono sicura di aver scritto di più a lui negli ultimi 13 giorni che a mio marito, in vent’anni che stiamo assieme. E mentre Mahmood e Blanco cantano “A volte non so esprimermi”, penso che io invece so esprimermi benissimo, con dovizia di particolari, ed è una fortuna, considerato che solo a parole posso spiegare tutti i sintomi alla persona che ci sta curando a distanza, persona che se mette assieme tutti i miei Whatsapp può pubblicare per me il mio secondo romanzo. Devo dire che il dottore, Giovanni Brengola, a questo punto mi pare cosa buona e giusta citarlo con nome e cognome e ringraziarlo, mi risponde sempre. E se all’inizio mi pare brutto disturbare la sera o di domenica, poi succede sempre qualcosa su cui voglio confrontarmi con lui, e lui, puntuale e disponibile, mi scioglie ogni dubbio.  Meno male che leggo e scrivo, sennò come mi passerebbe il tempo stipata nella mia cameretta? Meno male che è la settimana del Festival e della leggerezza sanremese. Peccato che devo stare lontano dalla ragazza mia. Il nostro rituale della sera prevede che ce ne stiamo avvinghiate nel lettone a vedere le nostre fiction del cuore, e lo stesso facciamo ogni anno con Sanremo. Quest’anno ci arrangiamo a stare assieme in video chiamata. Chiedo a mio marito di sbloccare le limitazioni al cellulare della Undicenne, per il fine settimana, chè io e lei abbiamo un Festival da seguire e possiamo farlo solo via Whatsapp. Mi fa una grande tenerezza Bianca, la mia adorata cagnolina, che non si capacita che non faccio entrare neanche lei in camera mia. Fa il giro del balcone e viene a fare la laconica davanti alla mia porta finestra. A volte faccio pensieri scemi, soprattutto quando cala il buio e non ci sono manco più gli alberi e i passanti in strada a farmi compagnia. Tipo che è colpa mia che io e mio figlio ci siamo presi il Covid, visto che qualche giorno primo ero andata a comprare per me e lui i pigiami nuovi, et voilà: ci sono serviti subito. Ma il pigiama, poi, l’ho preso anche al marito, ora che ci penso. Si positivizzerà anche lui? Ma no, gli AstraZeneca+Pfizer sono i più forti di tutti. Comunque non ho perso l’olfatto, l’odore del soffritto del coinquilino adulto si spande in tutta casa e si infila pure sotto la mia porta! E pensare che nella mia vita da negativa l’olio evo non s’è mai arricciato in una mia padella! E che ai figli al pomeriggio preparavo delle gran tagliate di frutta fresca e secca per mantenerli in buona salute (comunque alla merenda sana sta continuando a provvedere il papà). Ma veniamo al rapporto con l’USCA, cioè il rapporto che una famiglia come la mia, spaccata in due dal Covid, dovrebbe avere con le Unità Speciali di Continuità Assistenziale, create appositamente nel marzo 2020 per gestire a domicilio i pazienti sospetti o accertati Covid-19 che non necessitano di ricovero ospedaliero. L’USCA si è palesata nelle nostre vite -dopo 9 giorni dalla positività accertata di mio figlio- con una telefonata in cui chiedeva al ragazzo se il tampone di controllo io e lui preferivamo farlo assieme l’8 febbraio (due giorni prima per me, che ci poteva stare visto ché nel frattempo un nuovo decreto aveva accorciato la durata dell’isolamento) o il 10 (due giorni in più di reclusione per lui, che quando hai 17 anni e stai chiuso nella cameretta da 10 giorni equivalgono a due anni). A parte il fatto che uno si chiede come mai L’USCA contatti un minorenne per discettare su tali questioni e non la sua genitrice, tra l’altro positiva pure lei, ma, poi, nonostante il minorenne e il padre del minorenne, che interviene nella conversazione, diano la migliore risposta possibile: “Chiedete a mia madre, chiedete a mia moglie”, l’Unità Speciale torna a eclissarsi nel buio da cui era emersa. Cerco i numeri telefonici dell’USCA, passo solo -si fa per dire- due ore e quaranta della mia vita a tentare di richiamare, ma ahimè, è più facile parlare col Padreterno che con l’USCA. Eppure non siamo più nel vortice di fine anno scorso, il numero dei contagi è calato. Tant’è. Mi piglia una crisi di nervi. Ma poi mi ricordo che devo stare calma, respira Giovanna, respira profondamente e medita ché se ti viene il sangue amaro ti si abbassano le difese immunitarie e Omicron ti mangia in testa. Optiamo ancora una volta per un tampone a pagamento per mio figlio. Negativo, evviva Dio. Giorno successivo, tampone, sempre a pagamento, per la Undicenne. Negativo. Evviva evviva evviva. I miei figli tornano a scuola, sono felice. Io resto nella mia cameretta, e sento che adesso sono davvero sola. Il nemico secondo me se ne è andato. Ma non posso esserne certa fino a dopodomani che farò un altro tampone, il primo, seddiovuole, a cui provvederà l’USCA. Al netto della paura, dei sintomi influenzali, dell’esaurimento nervoso e di una barca di soldi in tamponi, integratori e antinfiammatori, sto bene. Stiamo tutti bene. Grazie ai vaccini ce la siamo cavata a buon prezzo. A chiusura di questo racconto, anche esilarante, ma che dice molte cose a chi le vuol capire, non posso non dedicare un pensiero a tutti quelli che hanno perso la vita a causa di questo maledetto virus. E anche a tutti quelli che hanno perso una persona cara senza averla potuto nemmeno accompagnare nell’ultimo viaggio.

Vi abbraccio, forte, chè nel frattempo di sicuro mi sono negativizzata.

P.S. E invece sono ancora positiva, o almeno lo ero fino a tre giorni fa che ho fatto il tampone con l’USCA. E dopo 26 ora circa ho ricevuto il tanto sospirato risultato. Purtroppo non quello sperato. A questo punto posso decidere di continuare la reclusione in cameretta per un’altra settimana (più un giorno o forse due per aver l’esito, l’USCA si prende fino a 48 ore per comunicarmelo) e rifare il tampone molecolare, oppure recarmi in farmacia e praticare quello antigenico il cui esito, che arriva di solito in mezz’ora, è equiparato a quello molecolare, sia per decretare la guarigione sia per riattivare il Green Pass, il tutto al piccolo -si fa per dire- prezzo di 15 euro. Bah, sarò io che sono offuscata dal raffreddore persistente e da Omicron, ma mi viene spontaneo chiedermi: perché non provvedono le ASL ai tamponi antigenici snellendo le quarantene, e non facendo perdere più tempo -e soldi- del necessario alle persone già provate dal Covid e dall’isolamento fiduciario? Se non avessi provveduto a fare i tamponi in farmacia ai miei figli, avrebbero perso altri giorni di scuola in presenza, e i discenti, soprattutto quelli campani, banchi, lavagne e facce dei compagni di classe, negli ultimi due anni li hanno visti solo attraverso uno schermo. E se io proprio non avessi potuto permettermeli i test a pagamento? Mi sa che li investo altri 15 euro in un altro tampone antigenico, sperando che sia l’ultimo, non è concepibile pensare di stare altri otto giorni in isolamento: che valore ha il mio tempo per chi mi governa? E poi, i due infermieri che si alternano nella farmacia in cui vado di solito sono gentilissimi e ti passano con estrema delicatezza solo la punta dell’asticella nella narice, tipo cotton fioc. E non è vero che se non ti arrivano al cervello il Covid non lo sbugiardano. Il giorno che son risultata positiva, l’infermiere mi aveva fatto solo un piccolo giretto nella parte più esterna delle narici, e, dopo 10 minuti, ero ancora lì a comprare la Vitamina C e altri integratori, la farmacista mi ha chiamato in disparte e mi ha comunicato l’esito.

E quindi anche sabato e domenica stipata nella cameretta, vado a fare il tampone domani, lunedì 14 febbraio, San Valentino, sperando che Amore mi strappi di dosso -per sempre- questo fottutissimo figlio di puttana (scusate il francesismo in chiusura).