lunedì 25 ottobre 2021


 

Renato Zero, di Giovanna Sica, articolo pubblicato sulla rivista Confidenze, Stile Italia Edizioni, n.41 28 settembre 2021

 

“Mi presento così/ Così come mi vedi/ Spoglio di vanità/ Non nascondo segreti/ Io mi adatto se vuoi/ Quando si parla d’amore/ Io do il meglio di me/ Io mi faccio apprezzare”, L’amore sublime.

Che tu ti sia fatto apprezzare, caro Renato, non ci sono dubbi, e nemmeno che abbia indossato tante vite. Però, adesso, come faccio io a stringerti in due fogli? Proprio non ci stai, con le tue 500 canzoni, con il tuo carrozzone di inquietudine, sogni, travestimenti e trucchi. Con tutte le volte che sei stato il primo a fare la rivoluzione in questo Paese, a fermare il tempo e a ripartire…da Zero.

E allora ti racconterò per lampi e sgraffi, attraverso le cose che so di te che più hanno contribuito, secondo me, a fare di Renato Zero una leggenda vivente.

So che fra un po’, il 30 settembre, è il tuo compleanno, che nasci a Roma nel 1950, figlio di Domenico e Ada, e che, piccino piccino, a causa dell’anemia emolitica neonatale, per curarti ti cambiano tutto il sangue che hai nelle vene. So che frequenti fino al terzo anno l’Istituto di Stato per la cinematografia e la televisione Roberto Rossellini, ma poi lasci perché bruci dal desiderio di esibirti su un palco. Adolescente inizi a travestirti per esibirti nei locali romani, e per tutta risposta agli odiatori, che purtroppo son sempre esistiti, che ti dicono che sei uno zero, tu decidi che quel numero cardinale diventerà la tua cifra, che in quel cerchio si uniranno a te tutti quelli che sentono la tua stessa solitudine, l’inquietudine di vivere. Al Piper s’accorge di te Don Lurio e ti mette a ballare con i Collettoni per Rita Pavone; in quel gruppo incontri Loredana Bertè e grazie a lei diventi amico anche di sua sorella Mimì (Mia Martini). Tutti e tre girate la Penisola a bordo di una Seicento; giovani, folli, senza una lira in tasca e con tanta voglia di cantare. So che agli esordi della tua carriera siete tu e Orazio, il tuo furgone celeste; fai tutto da solo. Una volta, a Tortoreto Lido, quando la proprietaria del locale in cui devi cantare ti chiede dov’è Renato Zero tu menti spudoratamente: “È in albergo, sta riposando”.  

Il tuo primo album in studio, No! Mamma,no! è del 1973 e che la tua Madame, tre anni più tardi, è il primo pezzo dance italiano, è Vasco a lanciarla da Punto Radio, dalla sua Zocca.

“Quante volte ho guardato al cielo? / Ma il mio destino è cieco e non lo sa/ E non c’è pietà / Per chi non prega e si convincerà/ Che non è solo una macchia scura/ Il cielo” Il cielo. È il 1977 e tu con Zerofobia, quarto album in studio, ottieni un successo enorme. So che tuo papà muore nel 1980 e tu gli dedichi Tregua, e che nella sua ultima notte terrena ti racconta la sua vita, e tu accogli le sue parole come un dono immenso: entrare in confidenza con lui all’ultimo confine, anche se lui, secondo te, è già dall’altra parte, e ricorda la sua vita terrena con i suoi cari appena ritrovati, però in quell’estremo abbraccio fra la vita e la morte vuole te.

Il primo dicembre del 1981 tiri fuori Artide e Antartide, è il disco più venduto dell’anno e contiene canzoni di denuncia sociale. L’anno dopo nell’album Via Tagliamento 1965-1970 c’è una canzone, Contagio, che anticipa di quasi 40 anni un futuro distopico … “Che nessuno esca dalla città/ Guai a chi s’azzarda a guardare laggiù/ Oltre quel muro, oltre il futuro/ L’epidemia che si spande/ L’isolamento è un dovere oramai/ Dare la mano è vietato, se mai/ Soltanto un dito e l’errore sarà punito”. A metà degli Anni ’80 metti via costumi e colori eccentrici e cominci a vestirti di nero. Con Spalle al muro, 1991, Festival di Sanremo, ricevi la standing ovation del pubblico e ti classifichi secondo. L’anno dopo inizi a occuparti del tuo grande sogno, Fonòpoli, un’associazione culturale che promuove l’occupazione dei giovani nel mondo dell’arte e dello spettacolo, una cittadella della musica. “Tutti vogliono tutto per poi accorgersi che è niente/ Noi non faremo come l’altra gente/ Questi sono e resteranno per sempre…” I migliori anni della nostra vita, una delle tue canzoni di maggior successo è del 1995, che poi è l’anno che si porta via l’amica Mimì; so che tu appena apprendi la notizia della sua morte telefoni a Loredana e le dici di non accendere la tivù e corri subito da lei.  “Dov’è Mimì/ Dagli enormi cappelli/ Che folli giorni quelli/È ancora lì/ Che suona il suo piano/ Il canto suo/Perfetto richiamo”, La grande assente.

 Il tuo album che ho più a cuore è Amore dopo amore (1998) perché contiene le tue due canzoni che preferisco: Mi ameresti (Mi ameresti. Non provarci perderesti/ Da una vita stravissuta che ti aspetti/ Noi non siamo tutti uguali/ Ma l’amore non lo sa/ E fa danni devastanti ovunque va) e Dimmi chi dorme accanto a me (Amori brevi amori insoddisfatti/ Spero che non vi rivivrò mai più/ Ma non c’è amore che non ha difetti…/ Dove sei, dove sei, dove sei!). Quando parli di amori spezzati raggiungi un’intensità che è solo tua, lo struggimento di chi sa di cosa sta parlando. Nel 2003 adotti legalmente Roberto e gli dedichi Figlio. So che sei il primo in Italia a pubblicare un disco senza affidarsi a nessuna casa discografica per la distribuzione; l’album è Presente, l’anno è il 2009.

Zerolandia, Zerofobia, EroZero, Identikit Zero, Zero, Sei Zero, Zerovskij, Zero il folle…torna sempre nella tua carriera il numero da cui sei partito, diventa un’ossessione, una forma di riscatto collettivo, la ribellione tua e della tua gente, di Tutti gli zeri del mondo (titolo di un tuo programma televisivo del 2000).

Fra settembre e novembre 2020 esce il tuo ultimo lavoro, ZeroSettanta, un triplo regalo che fai a te stesso e ai tuoi fan per i tuoi settant’anni. Di queste 39 bellissime canzoni le mie preferite sono L’amore sublime e La carezza, dedicata a Ada e Virginia, le tue nipoti.  Sul secondo cd della trilogia scrivi: “Eccolo, lo Zero che ho scelto di essere. Sfrontato e sensibile. Scrupoloso e sognatore. Ruvido per difetto. Accomodante per eccesso. Quante volte sono stato Zero e quante altre Renato? Chi può dirlo? Posso però affermare con certezza che in due, ne hanno combinate di tutti i colori, “Insieme”. E di questi tempi festeggiano le loro nozze d’oro. Ce l’hanno fatta a rimanere saldi e propositivi… non si lasceranno più”. Signor Fiacchini (cognome all’anagrafe di Renato Zero), io so, anzi, sento che tu sei stato profondamente vero, sia nei panni di Renato che in quelli di Zero, e che con te questo numero ha cambiato faccia, per sempre.










mercoledì 15 settembre 2021

 


I Maneskin, di Giovanna Sica

Articolo pubblicato sul settimanale Confidenze n. 33, agosto 2021

 

 

E non c’è vento che fermi / La naturale potenza / Dal punto giusto di vista / Del vento senti l’ebbrezza / Con ali in cera alla schiena / Ricercherò quell’altezza / Se vuoi fermarmi ritenta / Prova a tagliarmi la testa …” Zitti e buoni.

Damiano David, anni 22, lo sguardo sicuro di chi sa dove sta andando, di chi mentre ti parla ti ha già sorpassato. Victoria De Angelis, anni 21, la faccia d’angelo e il fuoco al basso. Thomas Raggi, anni 20, l’aria trasognata di uno che viene da un altro mondo, la chitarra l’unico contatto col pianeta Terra. Ethan Torchio, anni 20, metà elfo e metà cavaliere, un portento alla batteria. E buonasera signore e signori, This is Maneskin, la prova viva e pulsante che quando c’ hai una marcia in più voli in alto senza manco prendere la rincorsa. Damiano, Victoria, Thomas ed Ethan sono quattro adolescenti romani quando si incontrano nel 2016. Victoria e Thomas suonavano già insieme, però il loro gruppo si era sciolto ed erano alla ricerca di voce e batteria. Erano alla ricerca di Damiano ed Ethan. Si riconoscono subito i quattro ragazzi della Capitale, sono pezzi che si incastrano alla perfezione ed esce scritto Maneskin.  Maneskin è una parola che arriva dalla Danimarca, vuol dire chiaro di luna, sicuramente la mette in mezzo Victoria, danese di madre. Chiaro di luna è proprio una bella suggestione, il riverbero della luce lunare, le infinite possibili magie. È il 2017 quando la band partecipa a X Factor, Manuel Agnelli, il loro perfetto mentore. I Maneskin sono dirompenti, originali, sfrontati. Eppure non vincono, almeno sulla carta. Esce Chosen (il brano con cui si erano presentati alle audizioni del talent), prodotto da quel genio della musica che è Lucio Fabbri. E sì, Damiano, sei il pifferaio magico, tu canti follow me follow me now e noi non possiamo fare a meno di obbedire. È marzo del 2018 quando viene pubblicato il secondo singolo, Morirò da re, certificato come il primo doppio disco di platino. A settembre dello stesso anno è la volta di Torna a casa, canzone che si aggiudica il quintuplo disco di platino. “Che mi è rimasto un foglio in mano e mezza sigaretta / Restiamo un po’ di tempo ancora, tanto non c’è fretta/ Che c’ho una frase scritta in testa ma non l’ho mai detta / Perché la vita, senza te, non può essere perfetta / Quindi Marlena torna a casa, che il freddo qua si fa sentire… “. La sua prima apparizione Marlena l’aveva fatta in Morirò da re e ci era sembrata una donna, ma ci eravamo imbrogliati, dopo l’uscita del secondo brano in cui viene nominata è la band stessa a chiarire l’equivoco: “Marlena è la venere del gruppo, la personificazione della nostra libertà, creatività, vita. Torna a casa è un pezzo da ascoltare a occhi chiusi e mente aperta. Aprite la mente per tornare a casa”. Quanto è lungo il 2018 per i quattro rockers romani! Il 26 ottobre mettono fuori il primo album in studio, Il ballo della vita, Damiano ci crede talmente tanto che se lo appunta sul petto. E poi ci crediamo tutti quanti, i Maneskin incantano ammaliano conquistano. Segue una tournée europea, Il ballo della vita tour, che registra il tutto esaurito a ogni tappa. L’anno successivo, a gennaio e ad aprile, escono Fear for Nobody e L’altra dimensione, rispettivamente terzo e quarto estratto. È l’autunno dell’anno Ventiventi e la band torna a entusiasmare col singolo Vent’anni (E andare un passo più avanti, essere sempre vero / Spiegare cos’è il colore a chi vede in bianco e nero), primo estratto di Teatro d’ira, il loro secondo album in studio, che arriva subito dopo la gara canora sanremese di marzo 2021. Il resto è storia che è diventata già leggenda: i Maneskin si classificano primi alla settantunesima edizione del Festival di Sanremo con Zitti e buoni e con lo stesso potentissimo pezzo vincono anche l’ Eurovision Song Contest, per la terza volta dalla nascita della competizione la vittoria va ad artisti italiani. Spariscono un paio di parolacce dal brano (perché, poi, visto che le parolacce le diciamo tutti, tutti i giorni?), ma il pezzo, per volontà dei quattro artisti romani, rimane in italiano, perché così gli è venuto fuori e così esprime al massimo la sua forza. Che lezione di autenticità, hanno dato a tutti noi questi ventenni che già da giovanissimi stringono fra le mani una verità indiscussa: non si può piacere a tutti. E proprio quando non ti sforzi di piacere a tutti che spacchi. Archiviata la querelle coi cugini d’Oltralpe, che hanno rosicato proprio un botto per la vittoria degli esordienti italiani, è stata tutta una volata verso il cielo. Quanto è lungo il salto dal cantare per strada a vincere l’Eurovision? Dipende. Da quanto credi in te stesso e nei tuoi compagni. Da quanto fiato sai mettere nei tuoi polmoni. Da quanto coraggio tiri fuori mentre ti butti, sicuro che non andrai giù, che sulla schiena ti spunteranno ali in cera. Mia figlia decenne mi ha spifferato che su Tik Tok  è la prima volta che ragazzi di tutto il mondo fanno il lip sync (mimano le parole, eh, signore e signori, roba da generazioni Z e Alpha!) di una canzone italiana! E pazienza se c’acchiappano solo su Parla, la gente purtroppo parla, già il fatto che si cimentino è un onore per la lingua italica. L’ascesa dei Maneskin in Europa e negli States è inarrestabile. Ovunque vanno sono accolti da veri divi, d’altronde la posa da divi ce l’hanno, eccome se ce l’hanno. C’è chi li paragona ai The Rolling Stones, chi agli U2. Io credo che i Maneskin sono uguali solo a loro stessi, e, secondo me, stanno entrando meritatamente dalla porta principale nell’olimpo delle grandi star della musica. Il 26 giugno scorso, nel giorno del Pride, i rockers romani sono stati ospiti del Polsat SuperHit Festival, trasmesso dalla tivù polacca; hanno messo in scena quella cosa strepitosa e immaginifica che è I Wanna Be Your Slave che ti fa cominciare a ballare anche contro la tua stessa volontà, e alla fine dell’esibizione Damiano e Thomas si sono baciati. Un messaggio forte, rafforzato poi da parole potenti su Instagram: “Pari diritti per la comunità LGBTQIA+. Crediamo che tutti dovrebbero poterlo fare senza avere paura, che tutti dovrebbero essere liberi di essere chi cazzo vogliono. Grazie Polonia. L’ amore non è mai sbagliato”. D’altronde, la loro liturgia pone sull’altare una Marlena che ha un solo comandamento: sii te stesso, Marlena, vinci la sera, spogliati nera, prendi tutto quello che fa comodo e sincera, apri la vela, dai, viaggia leggera, tu mostra la bellezza a questo popolo (Morirò da re).



giovedì 20 maggio 2021

Tuttoattaccato





 “Te la ricordi la prima volta che ti dissi ti voglio bene? Lo pronunciai in un soffio, tuttoattaccato, sì, con la paura che se ci avessi messo in mezzo le pause poi non avrei più trovato il coraggio di dirtelo…”.

Sandra gestisce la Puteca, una bottega a Marina di Vietri, in cui contrabbanda favole e vestiti usati. La Puteca, però, non è solo un emporio: è un crocevia in cui si incontrano le storie umane e struggenti di quattro amiche che vivono la loro vita pagando lo scotto di un passato doloroso. Un passato che a volte agisce sul presente, acquattato nella penombra dei ricordi, a volte, invece, si manifesta in carne e ossa a metterle alla prova. Ma salvarsi non è sempre e solo uscire indenni dalle difficoltà, perché la vita è un sentiero complesso che intreccia gioia e dolore, colpa e perdono; è un universo in cui nulla vive per sé, ma ogni elemento esiste in rapporto con gli altri…tuttoattaccato.

Tuttoattaccato è in libreria dal 13 maggio 2021, pubblicato dall’editore bookabook, al costo di 16 euro.


“tuttoattaccato” è un romanzo che scandaglia i rapporti umani. Rapporti coi genitori, con la madre sopra ogni cosa. Rapporti coi figli, coi coniugi, con gli amanti. Con gli amici. E ancora, il rapporto


complicato che ognuno dei personaggi del libro ha con sé stesso. Con le paure che non riesce a superare. Coi dolori antichi che si ammucchiano fra le ossa e quando cambia il tempo tornano a fare male. Con i torti che è difficile perdonare e perdonarsi. Con la gioia inaspettata di qualcuno che ti prende per mano e riesce a sanarti da ogni malattia. Da tutte le mancanze.

La narrazione si svolge da marzo a ottobre (2019), anche se non mancano le analessi che rinviano al tempo della gioventù dei protagonisti.

Le protagoniste principali sono quattro donne.

Sandra, primus inter pares, è una donna insicura e visionaria. Sovrappeso se non obesa, come le piace ricordare ogni due per tre, a quarant’anni realizza il sogno di aprire uno specialissimo emporio in cui contrabbanda pezze usate e libri, la Puteca, social reale del gruppo. È soprattutto fra le mura della Puteca che si susseguono gli eventi di questa storia.

Serena invece è tanto bella, forse troppo. Sua madre le stampò addosso i suoi lineamenti perfetti e poi la abbandonò quando aveva solo 5 anni per andarsene con un tizio di cui si era invaghita. Questa onta enorme è insopportabile sul cuore di una bambina che cresce insieme alle sue insicurezze.

Beatrice è una professoressa di arte. Ha due figli adolescenti con cui son cominciate le fisiologiche lotte legate all’età. E poi un marito, un amante e una grande rabbia nel petto. Anche Bea vive un forte disagio legato alla donna che l’ha messa al mondo.

Completa il quartetto un’integerrima dietista, Alessandra, che sembra non azzeccarci tanto con le altre tre donne, ma anche lei è alla ricerca di un tempo suo. Ale si è buttata a capofitto nel ruolo di moglie e madre e si è scordata che il suo corpo ha confini suoi.

Ci sono tanti altri personaggi importanti in questo romanzo. La signora Elvira, una meravigliosa ottantenne che vive proprio sopra la Puteca, testimone di anni in cui le donne dovevano fare quello che dicevano gli uomini. Diego, amico del gruppo, cantante squattrinato, sciupafemmine di professione. Ottavio, il papà di Sandra, uomo schivo e anaffettivo da cui Sandra non si è mai sentita amata. Viola, la figlia di Beatrice che vuole togliersi al più presto il pensiero della Prima Volta, e Filippo, suo fratello, che non vuole esser rotto i coglioni da una madre ingombrante che si sente tanto 2.0 parlando di lui sui Facebook. E poi Pietro, Dio mio, Pietro.

L’amicizia, l’amore, i disastri familiari. La madre. Le mancanze e le gioie. Le giornate sempre uguali e quelle che non dimentichi più. Il senso di colpa, gli sbagli, gli sbandamenti, i tradimenti. Le canzoni. La buona fede e il compromesso. Le risate salvifiche. Tuttoattaccato.

“La vita dovrebbe essere un libro di racconti. Non un romanzo in cui tutti i capitoli sono intimamente legati e ingarbugliati fra di loro. Avremmo bisogno di pagine che abbiano un senso anche da sole. E invece no. La vita è un romanzo in cui non esistono spazi bianchi. Tutto attaccato” dice Alessandra. 

Questo è un libro che urla una cosa importante: la madre è l’origine di ogni bene e ogni male. Le protagoniste lo sanno e faticano duramente per arginare lo sgarro materno. Imparano a perdonarsi. A concedersi di essere felici. E lo fanno passando per l’amicizia che le lega. E ancora: non esiste mai una sola verità. La vita, di solito, è una faccenda troppo complicata per essere compresa tutta in una volta. La verità ha bisogno di tempo. E di vittime.

tuttoattaccato è una storia corale. Non c’è una trama unitaria, i fatti si rincorrono e si sorpassano lungo il tempo orizzontale e lungo quello verticale.

C’è commistione dei generi: melodramma e commedia. E c’è la modernità tecnologica: Facebook, Whatsapp, Instagram. I social, sì, ma più a decorare che ad accrescere le vite dei protagonisti. La sostanza non è quasi mai una roba virtuale. La sostanza passa dagli abbracci dai sorrisi dalle lacrime.

La narrazione risulta polifonica perché i capitoli sono quasi tutti incentrati su dialoghi.

Non c’è un narratore che guarda i fatti dall’alto. È Sandra a smistare e moderare le storie; ne risulta un grande coinvolgimento del lettore che ci mette davvero poco a sentirsi dentro la tribù della Puteca.

 

 

 

 

 

 

 

 





Il Sentiero dei limoni

 

Il Sentiero dei limoni

 

Storia vera di Carmela (detta Maria) Staibano, scritta da Giovanna Sica e pubblicata sul settimanale Confidenze, Mondadori, n.50 4 dicembre 2018.

 

 

 

Mi chiamo Carmela Staibano, anche se per tutti qui a Villaggio Torre sono Maria. 

Mio padre era vedovo quando si ammogliò con mia madre. Per rispetto alla prima moglie decise che a me, la sua unica figlia femmina, avrebbe dato il nome della compagna defunta, Maria. Solo che Antonio, mio padre, voleva puntellare anche sua sorella, così mi registrò come Carmela, ma con questo nome non mi conosce nessuno. I fatti che sto per raccontarvi appartengono a un’altra epoca. 

Ho visto la luce nel 1926 e nel mio villaggio, abbarbicato alle rocce della Costiera Amalfitana fra Minori e Maiori, eravamo cento famiglie a fare il mondo, il nostro mondo. Il mare e gli altri paesi erano lontani. 333 scalini ci tenevano isolati dalla Costiera. Sapevamo che sotto di noi c’era il mare, lo vedevamo impastarsi al cielo affacciandoci ai nostri balconi. Ma lo percepivamo come una presenza lontana. Noi torresi eravamo e ancora siamo gente di origine contadina. Quasi tutte le famiglie possedevano un piccolo terrazzamento in cui coltivavano fagioli e patate per non morirsi di fame. E poi abbiamo sempre avuto i limoni, ma limoni belli, speciali, tanto è vero che la strada su cui si srotola la nostra comunità si chiama appunto il Sentiero dei limoni. 

So leggere e so scrivere. E di questo devo ringraziare la maestra Giulietta. Mia madre e le altre donne del villaggio non avrebbero mai portato i loro bimbi a scuola giù a Minori, ma, per nostra fortuna, una donna di nome Giulietta si propose come insegnante. Ci riunivamo in una stanza lungo il Sentiero, tutti i bambini di Torre; non è che si poteva fare distinzione in base all’età, le lezioni erano le stesse per tutti. Mia madre paga 5 lire al mese, quello era il prezzo per la mia istruzione. I miei tre fratelli s’arrangiavano a lavorare come muratori appresso al mio papà. 

Finito il tempo delle elementari presi a occuparmi della casa e di mamma che aveva una malattia agli occhi che l’aveva resa quasi del tutto cieca. Andavo a lavare i panni al Belvedere Mortella perché lì c’erano i lavatoi. Era un bel momento. Ci ritrovavamo fra ragazze e ci raccontavamo fatti e sogni. Una cugina di mio padre prese a pretendere che andassi ad aiutarla con le faccende domestiche; lei il lavatoio ce l’aveva in casa e quando strofinavo le sue pezze non potevo nemmeno godermi la gioia di stare con le mie compagne. Mio fratello Gerardo, che era molto protettivo nei miei riguardi, non sopportava che scorticassi anche per altri parenti che già faticavo tanto in casa nostra. Così s’inventò che dovevo andare con lui al giardino per lavorare la terra. In realtà, una volta lì, mio fratello non mi faceva fare proprio niente, lui voleva solo che mi riposassi un po’. Che me ne stessi seduta a rimirare il mare che incorniciava da lontano le nostre vite. 

Una distanza in realtà irrisoria, quella fra il mio villaggio e l’azzurra distesa, ma che a noi torresi sembrava immensa. 333 volte immensa. Come il numero degli scalini che eravamo costretti a percorrere per scendere a Minori. Questo disagio di essere collegati al mondo solo da questi gradini non è una roba di quando io ero bambina. Questa situazione è durata fino a cinque anni fa. Solo nel 2013 noi torresi abbiamo finalmente avuto la strada. Solo dopo una vita di stenti e di continue discese e risalite. Fino a che hai gambe forti non l’accusi la fatica di arrampicarti continuamente su e giù. Ma quando diventi vecchio, quando hai un neonato fra le braccia, quando piove a dirotto, quando hai in mano le buste colme della spesa che ti segano le dita, la stanchezza di vivere appeso a 333 gradini l’avverti, eccome se l’avverti. 

Costruimmo una sedia di paglia sorretta da due mazze di legno che uomini forti si mettevano in spalla per portare giù gli anziani malati che dovevano ricoverarsi all’ospedale; noi donne invece sgravavamo in casa, ci aiutava una levatrice. Non c’è neanche una salumeria quassù; se all’improvviso ti viene voglia di fare un dolce e ti mancano le uova o lo zucchero, non è che li puoi comprare, hai una sola possibilità: chiedere alla vicina di casa, forse per questo nei nostri cortili ci sentiamo un’unica famiglia. Una volta ogni abitazione era dotata del forno a legna, così si faceva il pane per una settimana e pure quello duro, da conservare in busta, che si bagna quando è il momento di usarlo. Eravamo attrezzati per sopravvivere. Tenevamo le galline che ci davano le uova; la mamma di Michele Rocco allevava le mucche e Rosellina, sua figlia, portava il latte davanti a tutte le porte. Avevamo la terra per gli alberi da frutta e gli ortaggi. Ce la siamo sempre cavata, anche perché ci contentavamo di poco. Quando c’era un matrimonio nella nostra chiesetta di San Michele Arcangelo, andavamo tutti, mica c’era bisogno dell’invito. Assistevamo alla funzione religiosa e i genitori degli sposi allestivano un banchetto nella piazzetta davanti alla chiesa. La vita scorreva semplice, grandi pretese non ne avevamo. A noi bastava scavallare la giornata. Arrivare a sera e poter mettere qualcosa da mangiare a tavola. 

Mio marito lo conobbi che avevo già trent’anni. Tardissimo per i miei tempi, che le donne a quell’età avevano già quattro, cinque figli da crescere. Io ero troppo indaffarata a prendermi cura della mia famiglia per potermi innamorare. Noi fanciulle torresi non avevamo molte occasioni di conoscere giovanotti; ci si fidanzava fra paesani, l’ho detto che il nostro mondo era tutto qui. Vincenzo, il mio futuro sposo, veniva da Maiori; era muratore come mio papà, a Torre ci era salito perché stavano costruendo delle case nuove. Mi maritai e cominciai a fare un figlio dopo l’altro. Sei figli. Gerardo, Ada, Assunta, Giuseppe, Pasquale e Febronia. Ma non è che potevo starmene a casa a crescere i miei bambini; mio marito lavorava alla giornata, c’era bisogno che mi rimboccassi le maniche anch’io. Fu così che iniziai a fare la portatrice di limoni, un mestiere che oggi non esiste più qui a Torre, anzi, mi dicono che io sia l’ultima portatrice di limoni ancora vivente. La cesta che mi caricavo in spalla pesava 57 chili. Sotto ci andava un panno chiuso a ciuffo che serviva ad ammortizzare il peso e a impedire che la sporta graffiasse il collo. In una giornata facevo 15, 20 viaggi. Su e giù per i 333 scalini. Più limoni portavo a Minori, più guadagnavo. E lavoravo pure quando ero incinta. Tenevo un pensiero per i miei bambini che stavano a casa, ma non potevo fare diversamente. Gerardo lo lasciavo nella culla da solo. Gli mettevo addosso una specie di panciotto con degli elastici che avevo cucito io che gli permetteva di stare in piedi e di sedersi e nient’altro, così stavo tranquilla che non poteva cadere dalla culla. 

Lo so che oggi mi avrebbero arrestata e tolto i bambini per una cosa del genere, ma all’epoca io non avevo scelta: se non andavo a lavorare non potevo mettere il piatto a tavola. Poi man mano che i figli aumentavano e crescevano si guardavano gli uni con gli altri. Un occhio glielo dava anche la vicina di casa e per il resto ci pensava la Madonna, era a lei che mi affidavo, e la Madre Celeste me li ha sempre guardati, i figli. A Torre non siamo più cento famiglie, ma poco più di cento abitanti. Io vivo ancora nelle case costruite da mio padre, insieme a Febbronia, l’ultima dei miei ragazzi, che ha trasformato parte delle nostre stanze in un bed & breakfast, “Casa San Michele”. 

Chi l’avrebbe mai detto che quassù si sarebbero arrampicate persone provenienti da ogni parte del mondo? In questo cortile, io e Rosetta, la mia fedele vicina, c’abbiamo visto crescere i nostri bambini, scalzi, coi piedi nell’acqua, mezzi nudi che correvano appresso alle galline e facevano le gare coi gatti ad arrampicarsi sugli alberi. Anche se la vita è cambiata, e su questa terrazza che guarda il mare la sera si rilassano persone che parlano altre lingue e vengono da posti che io non vedrò mai, il villaggio Torre ha mantenuto la sua natura più vera: quella di essere un’unica grande famiglia. Io ringrazio Dio. 

Nonostante tutta la fatica che mi ha camminato addosso, ho avuto una vita felice. Sì, sono stata felice sempre, anche nelle difficoltà. E il mio segreto per la felicità stava e sta nel modo allegro in cui mi sono abbracciata la mia vita. C’era sempre del bello, in ogni giornata, pure la più brutta, bastava saperlo vedere. Nella mia memoria è rimasta impressa una giornata della mia infanzia. Mio papà andò a ristrutturare il giardino di un albergo a Ravello. Era un posto bellissimo, sopra le nostre teste si estendeva un vigneto tutto intrecciato, così Antonio decise di portare con sé me e i miei fratelli.  Ognuno di noi aveva una pagnottella di pane per il pranzo, senza niente dentro. Eppure, quel pane vacante consumato quel giorno in quel giardino stupendo che c’era un gran sole io lo ricordo come il più buono della mia vita. I turisti che soggiornavano lì ci guardavano come se fossimo dei disgraziati. “Poveracci, si contentano di così poco” esclamavano. E non la vedevano e non la capivano. 



Tutta la nostra felicità.