sabato 23 agosto 2014

Festival "Sui sentieri degli Dei" ad Agerola


Agerola. Che posto incantevole che è Agerola. Si svolge qui fra luglio ed agosto il Festival  “Sui sentieri degli Dei”.
E il 13 agosto scorso c’è stata una serata che non potevo perdermi: “Note e poesie” , con consegna del premo Salvatore Di Giacomo a Roberto Vecchioni.
Il cantante lombardo, figlio di napoletani, è completamente a suo agio in mezzo a tanta bellezza. In mezzo a tanta meravigliosa napoletanità. E’ un concetto a lui caro, questo. E gli spiace davvero che alcuni abitanti della nostra bella penisola non conoscano e non apprezzino la storia, le virtù e i preziosismi di questo antico, mai fuori moda “brand”. La napoletanità.
Vecchioni ricorda che il regno di Napoli è stato il primo e il più prestigioso d’Italia. E che i re, che venivano in questa terra, decidevano di scordarsi della loro lingua per mettersi a parlare napoletano. Perché il dialetto campano era ed è irresistibile.
E’ stata la canzone partenopea a riconciliare il popolo con la borghesia. Ad ispirare l’Opera. A far conoscere al mondo quel magico tratto distintivo che è la napoletanità. Quell’arte speciale di creare. Di inventare ed inventarsi. Riciclare e riciclarsi. Quello speciale modus vivendi che ti  porta a saper ridere e piangere di tutto. Camparsi la giornata. Quel talento invidiabile dei grandi poeti e cantanti napoletani di raccontare i sentimenti. Lo struggimento. L’amore che non passa.
Di quel Salvatore Di Giacomo, a cui è dedicato il premio che ritirerà, Vecchioni intona: “Era de maggio” .
“Era de maggio e te cadéano ‘nzino,
a schiocche a schiocche, li ccerase rosse …”.
Ah potere evocativo delle parole!
Mi sembra di sentirlo il profumo di queste “Schiocche di ccerase”.
Di vederle e di non poter più distogliere lo sguardo per quanto son belle.
Il Professore confessa che la sua canzone napoletana preferita è : “I’ te vurrìa vasà”.
Che c’è tanto di quel sentimento in: “I’ te vurrìa vasà/ma ‘o core nun mm’ ‘ o ddice/  ‘e te scetà …/I’ mme vurrìa addurmì/I mme vurrìa addurmi/vicino o sciato tujo/n’ora pur’ i’…” , che non serve cercare altre parole per dire quanto bene possa passare tra due persone.

Sotto questo palco appoggiato alle stelle, la canzone invece che più di tutte è entrata nel cuore mio è: “Voce ‘e notte”.
Oltre ai versi, sorprendenti e potenti, è la storia di questa composizione che mi fa emozionare.
Edoardo Nicolardi era un poeta. Uno che campava di parole. E si innamorò della sua giovane vicina di casa, Anna Rossi. Come si flirtava a quei tempi? Come si consumava un corteggiamento nei primi anni del Novecento? Beh, con gli sguardi.
Bastava “ na guardata”. Che saziasse il cuore nell’attesa di un altro, furtivo incontro.
Con poche, semplici frasi di cortesia. Mentre si sarebbero volute trovare le parole più belle mai inventate, per dirsi amore e voglia di stare assieme. E invece “tutt’e duje, scurnuse,nce parlàvamo cu ‘o vvuje”. Poi però Edoardo si spogliò di quei panni “scurnusi” e andò a parlare con Gennaro, padre di Anna, per chiederla in sposa. Costui era un freddo calcolatore a cui poco importava dei sentimenti di sua figlia. Gennaro Rossi era un ricco commerciante di cavalli. E avrebbe accolto come genero solo il pretendente che si fosse presentato a lui con una cospicua dote. Così mise subito alla porta il povero Edoardo e si affrettò a trovare un buon partito per sua figlia. Nel giro di due mesi, la piccola Anna, diciott’anni e un cuore puro, si ritrovò sposata con un uomo di settantacinque anni.
Siete mai stati ad aspettare sotto la finestra della persona amata? A vedere se si affaccia? Io sì. Nicolardi sì. E non lo so se ci vai solo per trovarti nello stesso posto in cui batte il cuore dell'amato o con la speranza segreta di vederlo comparire, quel volto che conosci a memoria, da dietro le lastre di casa sua, come una visione. Edoardo ci va tutte le notti sotto la finestra di Anna. Ed una volta davvero gli pare di scorgere l'ombra della donna. Va al Caffè Gambrinus, che affaccia  su piazza del Plebiscito, e scrive di getto i versi struggenti di “Voce ‘e notte”.
“Si ‘sta voce te canta dint’ ‘o core
Chello can un te cerco e nun te dico;
tutt’ ‘o turmiento ‘e nu luntano ammore,
tutto ll’ammore ‘e nu turmiento antico …”.
Gli amori impossibili fanno tremare. E non ci si può rassegnare. Cacciarli dal cuore. Continuare a vivere come se niente fosse.
La storia di Edoardo ed Anna ha un gran bel finale. Dopo due anni di matrimonio, Pompeo Corbera, lo sposo un po’ attempato di Anna, muore. Edoardo la chiede nuovamente in moglie. Stavolta Anna è vedova. Non ha più bisogno del permesso di suo padre per sposare il tenero poeta. Le loro vite si intrecceranno profondamente. Nasceranno ben otto figli da questa unione. Solo la morte li separerà, un po’.
Quindi l’amore vince sempre? E chi lo sa. Certo, Nicolardi, quella notte che tirò fuori dal suo cuore sofferente lo splendore di “Voce ‘e notte”, non immaginava mica che stava dando vita ad una delle più belle canzoni napoletane mai scritte. Così come non sapeva che sarebbero passate quelle notti di struggimento sotto la finestra della donna amata. Che ce ne sarebbero state altre, di abbracci caldi e mai sazi. Forse, visto che poi quell’amore impossibile divenne reale, dovremmo ringraziare quel padre avido, che opponendosi all’amore di un  giovanotto squattrinato, gli mise in petto questo bellissimo madrigale.

Durante la serata, a Vecchioni viene regalata una maglietta. E lui, senza scomporsi un solo istante, si toglie quella che indossa e mette su questa T-shirt con la faccia bella di Massimo Troisi. Questo sì che è un vero, carnale, gesto di napoletanità.
Accompagnato dalla chitarra di Massimo Germini, il cantautore meneghino fa dono alla folla accorsa ad acclamarlo, di alcune delle sue più belle canzoni. Proprio quelle che gli chiede il pubblico. Urlando il titolo di brani antichi mai dimenticati. Come “Figlia” . O “Luci a San Siro”. Mettendogli una richiesta direttamente in mano. Dentro ad un biglietto stropicciato. Scritto da qualcuno che vuole emozionarsi sulle note di “Celia de la Cerna”. E lui, il Professore, mica si sottrae. Si dà. Improvvisa. Da vero napoletano.
A Gianni Simioli, conduttore radiofonico,  il compito di tenere assieme tanto entusiasmo.
Ed è proprio lui a chiedere che tutte le luci del palco vengano spente per un minuto.
Per tirare su gli occhi e guardare le stelle. Siamo ad agosto. Potremmo vederne qualcuna cadere.
E pure se non succedesse, pure se in questo lunghissimo, delizioso minuto restassero tutte lì, attaccate strepitosamente al cielo, tutta la bellezza che c’è quassù, avrà comunque riconciliato col mondo tutti i fortunati presenti.



venerdì 7 marzo 2014

-Allacciate le cinture- Ferzan Ozpetek

Ho appena visto questo film. Non è mia intenzione raccontarvelo. I film son come le canzoni. Non si raccontano. Non si spiegano. Si vivono. E io, "Allacciate le cinture", l'ho appena vissuto. E' qui con me. Prima ero io con tutte le cose che avevo, ora ho anche "Allacciate le cinture". Lo sento. E' come un virus. Mi  è entrato sotto la pelle e ora si piazzerà sul cuore mio. Non volevo alzarmi dalla sedia quando la proiezione è finita. Un tizio è venuto a dirmi: -Guardi che il film è finito.- E mi guardava con quei suoi occhi trasparenti, senza amore. Forse, avrà addirittura riso dei miei di occhi. Scintillanti e gonfi. E di me che non riuscivo ad uscire da dentro questo film. "No che non è finito imbecille" gli avrei voluto rispondere. Sono rimasta là. Con tre amici appesi ad una risata felice.
 Con Rino Gaetano che urlava il suo dolore. Ma quel dolore, "a mano a mano", diventava gioia. Amore. Perchè è così che è la vita. E' tutto e il contrario di tutto.

Elena. Elena ha grandi occhi. Che dicono cose che lei non vorrebbe. Elena ha un amore che le esplode in petto e non la fa deglutire davanti a lui, Antonio. Il cuore le fa sentire la sua spinta alla gola. Ha una vena sul collo a cui non sa impedire di tradirla. Di decidere per lei. Elena non ha scampo. Non ha scelta. E' l'amore che ha scelto per lei. Elena deve solo adattarsi. Ci sarebbero tutti i motivi del mondo per non farlo e non c'è nessuna buona ragione per finire fra le braccia di quest'uomo. Ma, all'amore non gliene frega niente di tutti i pensieri giusti e pensati a fin di bene. In quei pochi istanti in cui decide di cambiare tutta la sua vita, forse Elena avrà calcolato tutte le possibilità.  Magari avrà pensato: "Ora respiro più forte e quest'urgenza passerà". E invece non passa. Non ha alcuna possibilità, se non quella di amare Antonio. E neanche respirare le viene più facile mentre i suoi occhi non sono dentro quelli neri di lui. Che vive il suo stesso tormento. Non ha molte parole per raccontarle quello che prova, ma ha questi maledetti occhi neri e grandi,da cui è impossibile scappare ...

Fabio. Filippo Scicchitano è bravissimo nei panni di Fabio. 
Racconta di una scena che ho già vissuto da qualche parte: -E quella sera a casa mia si dava una festa, i grandi chiacchieravano i salotto, le porte spalancate sul giardino, e il profumo dei tigli che entrava. Io e Yusuf in camera, il giradischi acceso, un bacio per provare, per vedere che effetto fa. Ma tu baci con la lingua, sei capace? E all'improvviso, quel padre che non c'era mai e poi c'era anche troppo, entra come un pazzo nella stanza, mi prende a schiaffi, mi strattona, urla:" Sei un pervertito!" Si volta, ora colpisce Yusuf. E vedo il sangue, che macchia il suo bel viso. Di là mia madre, gli ospiti, i genitori di Yusuf, in silenzio. Ricordo ancora l'umiliazione, le lacrime, l'incomprensione.-. Certo, è "Rosso Istanbul". E' lì che ho già vissuto questa scena. E' lì che ho già pianto per questo dolore. 
E ho pianto per quasi tutta la proiezione del film. Lacrime buone, che fanno bene. "A mano a mano si scioglie nel pianto" il silenzio. Si scioglie nel pianto la miseria della nostra condizione umana. Ma anche la felicità. I tratti di splendore che illuminano ogni vita. Si scioglie nel pianto l'amore che, come aveva già detto Ozpetek, è "una mazzata fra capo e collo". La vita che a volte ci spoglia e ci lascia nudi sul balcone ad aspettare che piova. O che arrivi il sole, da qualche angolo di cielo, che proprio non te l'aspettavi. La vita che è imperfetta come due genitori che lo sanno che non si litiga davanti ai figli. Che lo sanno che i bambini curvano le spalle e fanno quella faccia lì, ma, lo stesso, non sanno fermarsi. Si scioglie nel pianto il mondo che è pieno di gente che si ama, ma che, ormai, sa parlarsi solo dandosi la schiena. Come se guardarsi negli occhi fosse diventato insopportabile. Si scioglie nel pianto ogni storia in cui ci sono persone che si ammalano, che però guariscono. Ma anche no. E se ne vanno ancora carichi di desideri. Di sorrisi sghembi. Di occhi affamati. 
Ho amato questo film, e questo mio nuovo amore non credo si consumerà tutto stanotte.
Ho amato questo film e quella musichetta malinconica che ritorna.
Ho amato questo film perchè le storie che mi passavano davanti agli occhi le sentivo così vere da poterci entrare dentro in ogni momento. Rischiando però di non poterne più uscire. 
Fui felice quando seppi che Kasia Smutniak sarebbe stata la protagonista femminile. Un pò meno (leggi: molto meno) di Francesco Arca come protagonista maschile. E invece Arca è stato bravissimo. E la sua imponente ed ingombrante fisicità è diventata solo uno strumento per esprimere Antonio, il suo personaggio. 

Antonio che non riesce sempre a fare la cosa giusta. Che annaspa dietro ad Elena, che sembra così perfetta. Antonio che ama con la purezza disarmante dei bambini.
Ah, vorrei dirvi tante altre cose! Dei splendidi battibecchi amorosi fra Viviana/ Dora ed Anna. Elena Sofia Ricci e Carla Signoris. Della voglia immensa di vita che c'è nelle risate spaventate di Egle. Paola Minaccioni. Degli occhi belli di Silvia. Carolina Crescentini. Dell' umanità di Diana. Giulia Michelini. Della bellezza sfacciata ed esasperata di Maricla. Luisa Ranieri. Di Maria Sole Piccinni, una meravigliosa piccola attrice, che esprime, in maniera eccellente, il triste disagio che, a volte, vivono i bambini nelle loro famiglie. Vorrei passare questa nottata appena cominciata a scrivere di questo film, ma non posso. Non sarebbe giusto. Andate al cinema a vedere "Allacciate le cinture", se vi va, e poi ne parleremo. Di come  un sentiero che porta al mare possa sbrecciare i confini del tempo. Di un corpo. Di un foulard rosso.


Non ho cenato stasera per la troppa emozione. Solo una birra. Patatine in busta alternate a semi di zucca e di girasole (per non sentirmi troppo in colpa). E poi gli ultimi scampoli di dolci del mio compleanno. Il mio tiramisù e la torta caprese della mia amica Valeria. Non chiedetemi le ricette, son quasi le due di notte. Sono di sicuro in qualche post più vecchio. Buonanotte, vostra giò.

giovedì 27 febbraio 2014

- Rosso Istanbul - Ferzan Ozpetek



Ferzan Ozpetek sta per tornare sul grande schermo con un nuovo film, “Allacciate le cinture”. Dobbiamo attendere solo (si fa per dire) altri sette giorni.
Intanto, lo scorso novembre, il regista turco ha pubblicato il suo primo libro.
“Amore. Che cos’ ho imparato sull’amore? Quello che ho imparato sull’amore è che l’amore esiste … Ho imparato che l’amore non sa né leggere né scrivere. Che nei sentimenti siamo guidati da leggi misteriose, forse il destino o forse un miraggio, comunque qualcosa di imperscrutabile e inspiegabile. Perché, in fondo, non esiste mai un motivo per cui ti innamori. Succede e basta. E’ un entrare nel mistero: bisogna superare il confine, varcare la soglia. E cercare di rimanerci, in questo mistero, il più a lungo possibile”. Ferzan Ozpetek, “Rosso Istanbul”.



In copertina ci ha regalato una foto di sua madre da giovane. Uno sguardo altrove e trasognato. Una grande donna, di cui si parla molto fra queste pagine (anche se il libro non è propriamente autobiografico). Una madre che lo chiama all’alba, con l’urgenza che hanno solo i vecchi, per dirgli: -niente conta più dell’amore-. Come se fosse una scoperta sensazionale. O forse, semplicemente, il senso della vita.
“Rosso Istanbul” racconta di un ritorno. Al passato. Ad un posto felice dell’infanzia.  Ad una città, Istanbul, che se fosse un colore, sarebbe il rosso. Come i tramonti sul Bosforo. Come lo smalto sulle unghie di sua madre. Che ora, per la crudeltà del tempo che le è passato addosso, per piacere al suo fisioterapista, di rosso chiede una tuta da ginnastica. Ancora, soprattutto, è un libro sull’amore. Sull’ ineluttabilità di questo sentimento. L’unico che rende una vita degna di essere vissuta.
Il romanzo ha inizio su un aereo che da Roma va ad Istanbul.  Seduti vicino, ci sono un regista turco ed una coppia sposata, Anna e Michele. Il romanzo racconta due storie. Separatamente. “Lui”, “Lei” c’è scritto sopra il titolo di ogni capitolo. E se per il protagonista maschile (che ricorda tanto l’autore), questo viaggio è un ritorno a casa, per Anna Istanbul è tutta da scoprire. Le due storie, in queste pagine, si sfiorano più volte. Si avvicinano, ma non si toccano. Almeno fino alla fine. Dove, in una notte in cui tutto può ancora succedere, la verità del regista e quella di Anna si incastrano.
La prima cosa che ho fatto, dopo aver letto ROSSO ISTANBUL (due volte), è stato andarmi a rivedere tutti i film di Ozpetek. La lettura di queste 111 pagine, mi ha messo in mano nuovi elementi per la comprensione delle sue pellicole. La zia zitella interpretata da Elena Sofia Ricci in “Mine Vaganti” , la ritroviamo anche nel libro. Come nel film, anche qui abbiamo una zia (zia Guzin) che  gridava “a ladro”quando, di notte, uno dei suoi amanti usciva dalla sua camera.  Ancora il regista turco del libro racconta una cosa  che gli piace fare: estraniarsi un momento sulla porta della sua cucina, per guardare i suoi amici, in quelle sere che son venuti a casa, e si mangia e si beve e si fanno i soliti discorsi attorno ad un tavolo. E non ho bisogno neanche di un secondo, per ricordarmi che  questa scena io l’ho già vissuta  in “Saturno contro”, con Luca Argentero.  -Ecco. Ci sono momenti come questo in cui riesco a sentirmi felice, non so bene perché … ma vedere Davide insieme ai nostri amici mi fa sentire al sicuro … so cosa dicono, cosa pensano e anche se son sempre le stesse cose, mi va bene così … Non voglio sorprese, novità, colpi di scena … voglio che tutto rimanga come è adesso … per sempre … anche se so che per sempre non esiste”.


Ad  Ozpetek piace considerarsi turco a Roma e romano in Turchia.
Adora vivere nella nostra Capitale, son ben trentasette anni che è in Italia. Tuttavia, non ha permesso al tempo trascorso qui di mettersi fra lui e la sua magica terra. Ha continuato a viverla. A tornarci. Per non dimenticare il profumo del tiglio e delle frittelle dei venditori ambulanti.
Con “Mine vaganti” il regista turco si innamorò del Salento. Di Lecce. Fu il suo primo film, girato in Italia, che non avesse Roma come location. Finora. Fino a “Allacciate le cinture” che sta per uscire. Ferzan è tornato a lavorare a Lecce. E, chi ha visto “Mine vaganti”, non avrà avuto problemi a capire perché questa città gli abbia conferito la cittadinanza onoraria. Dopo la visione di questa pellicola, si ha un solo desiderio: perdersi nei vicoli di questa terra luminosa. Ci si va apposta. Ci si torna apposta. Si cammina per le strade di Lecce, e ci si lascia sorpassare, ad ogni angolo, da quella giovane sposa impaurita che scappa da un destino già scritto per filo e per segno. Sembra di sentire i passi della gente al funerale di quella sposa divenuta con gli anni una nonna stravagante. Che nel suo testamento dirà :“La terra non può volere male all’albero”. Era lei la vera mina vagante della famiglia. Ognuno di noi è stato, almeno una volta nella vita, quella sposa. Quella mina vagante.

Ferzan è grande maestro nel raccontare la vita. Il suo sguardo d’insieme si sfilaccia in ogni inquadratura. Scruta l’animo umano, le debolezze, le manie. Ma anche gli slanci , i sogni realizzati e quelli rimasti impigliati in qualche albero, proprio come gli aquiloni della sua infanzia. Racconta l’amore, sopra ogni cosa. In tutte le sue possibili facce. Non è mai giudice supremo, deus ex machina. Piuttosto è un amico immaginario che cammina accanto ai suoi personaggi. Questi hanno vita propria, nemmeno lui può cambiare il destino che li attende. Però, è sempre lì, al loro fianco. Non li lascia. Non li perde.
Ci son frasi nel suo libro, così come in tutti i suoi film, che ti si fissano in testa. Che irrompono nella tua vita. E te la rovesciano. I suoi lavori si potrebbero definire “a rilascio graduale”. Come certe medicine, hanno il potere di guarirti. Dopo ogni suo film, si esce dalla sala arricchiti. E cambiati. Ozpetek ha il potere di trascinarti in mezzo alla storia dei suoi personaggi (Magnifica Presenza). Di farti crescere il cuore per accogliere un nuovo possibile dolore (Un giorno perfetto). Di spezzarti il respiro, mentre aspetti che la vita riprenda a scorrere, dopo uno strappo (Cuore sacro).  Di metterti in attesa di quella “mazzata fra capo e collo” , di cui parlava Ennio Fantastichini (Saturno contro). Perché niente conta più di quella mazzata. “Niente conta più dell’amore”. E forse, è vera e sacrosanta l’urgenza con cui la madre lo chiama all’ alba per svelargli, ogni volta,  questo segreto.
Il trailer del nuovo film è accompagnato dal brano  “A mano a mano”. Canzone di Cocciante, in una versione emozionante, quasi urlata di Rino Gaetano. Non è la prima volta che Ozpetek ci mette in mano bellissimi testi. Si pensi all’inedito “Sogno “ di Patty Pravo, a “Remedios”, brano del 1974,  cantato dalla grande Gabriella Ferri.  E poi, non manca mai nei suoi film, almeno una canzone dell’amica Sezen Aksu. Con le sue melodie struggenti come tutti i suoi film.

Ho molto apprezzato la scelta di Kasia Smutniak come protagonista femminile. Ma anche le altre donne del film sono splendide: Elena Sofia Ricci, Carolina Crescentini, Carla Signoris.
So che Ferzan, come me, adora cucinare e avere gli amici a casa. Mi sono interrogata seriamente su quale ricetta dedicargli, ho pensato che se (volesse il Cielo) capitasse ospite ad una mia cena, gli farei un piatto semplice, ma dal sapore deciso:
-Gli spaghetti con la colatura di alici di Cetara-
Ricetta per sei persone:
-600 gr di spaghetti (i miei amici vogliono il piatto pieno!)
-sei cucchiai di colatura di alici
- pane tostato e sbriciolato al momento
-3 spicchi di aglio
-pomodorini del Piennolo
-olio extra vergine d’oliva (si, ma deve essere quello buono)
-6,7 alici sotto sale

Si fa bollire l’acqua e si cuociono gli spaghetti (senza sale, la colatura è già salatissima!).
In una padella si fanno soffriggere l’olio con i pomodorini e l’aglio (leggermente schiacciato). Si scola la pasta al dente e si tuffa in padella, contemporaneamente si aggiungono la colatura e le alici salate (previamente passate sotto l’acqua),  il pane tostato nel forno e poi sbriciolato grossolanamente, prezzemolo e ancora olio evo a crudo.


“E quando trovi il coraggio di raccontarla, la tua storia, tutto cambia. Perché nel momento stesso in cui la vita si fa racconto, il buio si fa luce e la luce ti indica una strada. E adesso lo sai, il posto caldo, il posto al sud sei tu” Rosso Istanbul.
Mi piace concludere con questa frase del libro. Mi fa credere che ogni vita meriti di essere raccontata. E che siamo tutti in viaggio. Anche quando restiamo fermi. Anche quando non ce ne accorgiamo.
Un abbraccio, vostra giò.
Ah, il sei marzo andrò a vedere ALLACCIATE LE CINTURE. Poi vi dirò J


martedì 18 febbraio 2014

NEGRAMARO -Una storia semplice tour-



Giuliano ha grandi occhi che gridano almeno quanto la sua voce. 
Dita inanellate sul microfono vicinissimo alla bocca. 
Riesce a tenerti lì, in quel posto che non c’è, fra le sue mani e la sua voce. 
Solo quando stacca le labbra dal microfono ed accenna un sorriso, la vita riprende a scorrere come sempre. Ad infilarsi beata nello spazio vuoto fra i suoi incisivi larghi. 
E poi è dimagrito Giuliano. Lo dicono i suoi jeans stretti infilati dentro i bikers.
Almeno una volta nella vita, farebbe bene a tutti partecipare ad un concerto dei Negramaro.
Si perché i sei musicisti del Salento che compongono il gruppo (Giuliano Sangiorgi voce, chitarra e piano, Emanuele Spedicato chitarra, Ermanno Carlà basso, Danilo Tasco batteria, Andrea Mariano piano, tastiere e sintetizzatore ed Andrea De Rocco campionatore)  sono una vera forza della natura. 

Si portano addosso con orgoglio i segni del sole della loro terra. 
La fantasia, l’energia di tutti i popoli del Sud del mondo. 
Proprio come per il “Negroamaro”, il vitigno del Salento da cui il gruppo prende il nome, il sole è elemento indispensabile nei testi di Sangiorgi. Spesso vi  troviamo la parola “sole”. “Amore dai, dai, dai muovimi il sole …”  “Non ti accorgi che son io a farlo scivolare sotto i piedi e sotto il sole tutto il resto muore …” “Ti sembra niente il sole!” rivisitazione di “Meraviglioso” di Modugno. Insomma il sole c’è sempre. I Negramaro ce l’hanno sotto la pelle, nel cuore. E anche nelle giornate senza luce e senza gioia che a tutti capitano, loro prendono il sole e lo mettono in parole. “Parole” già. Anche questo è un termine che torna spesso nelle loro canzoni. 
Sangiorgi è uno che ama le parole, forse, addirittura, più della musica. 
Anche se in “Un passo indietro” aveva detto:  -Un passo avanti ed ora io, io non parlo più e tra le mani, mani stringo a che servon le parole …”.


“Una storia semplice tour 2013” si è concluso ed è stato un grande successo. 
La band ha festeggiato e suggellato con questo disco e questo tour i suoi primi dieci anni di vita. I concerti hanno fatto il sold out da Torino ad Acireale. Grandi ospiti, amici dei Negramaro, sono intervenuti ai loro concerti. Fiorello, Biagio Antonacci, Niccolò Fabi, Pino Daniele ed altri ancora.
“Ti è mai successo”, primo singolo estratto dall’album “Una storia semplice”, è la canzone con cui i Negramaro son riusciti a fare rock “senza sporcare le chitarre”, così ha detto il frontman del gruppo. La canzone è rock nelle parole.
“Ti è mai successo di sentirti al centro/al centro di ogni cosa/al centro di questo universo/e mentre il mondo gira, lascialo girare chè tanto pensi di essere l’unico a poterlo fare/sei così al centro che se vuoi lo puoi anche fermare/cambiando il senso della direzione per tornare/nei luoghi e il tempo in cui hai perso ali sogni e cuore/a me è successo e ora so volare”.

Questa canzone parla di un viaggio. Vero, metaforico, non importa. Forse Sangiorgi parla di sé. Eppure, può riguardare ognuno di noi. Perché  tutti abbiamo avuto un tempo in cui ci sentivamo al centro del mondo, vento in poppa, si poteva intraprendere qualsiasi direzione si volesse. Tutto era ancora possibile. E così, ci siamo buttati. Sentivamo di avere le ali. E siamo approdati, o forse tornati, in quei luoghi “in cui hai trovato ali, sogni e cuore”. Però non potevamo restare lì per sempre. Per quell’inquietudine che spinge altrove. “Felicità è qualcosa da cercare senza mai trovare”. Nell’ultima strofa della canzone, l’autore si rende conto che “restare in bilico è meglio che cadere, a me è successo e ora so restare”. Ecco l’universalità di questo viaggio. Il cantautore salentino è un grande comunicatore. Riesce a trovare le parole che spostano il centro: da lui a chi lo ascolta. Perché Sangiorgi lo sa, si che lo sa, che è successo a tutti di sentirsi così: invincibili e inquieti. Che ci sono tratti di splendore che attraversano ogni vita. E ali che spuntano su tutte le schiene, per volare  “oltre i muri e i confini del mondo verso un cielo più alto e profondo”. Ma che c’è anche un tempo per “voler tornare a tutto quello che credevi fosse da fuggire”.

Finiti i concerti, Giuliano ha scritto un post bellissimo sulla pagina face book dei Negramaro. L’ha intitolato “Chi sei”. Racconta le sensazioni che si provano il giorno dopo un tour intenso come questo. Parla di come la vita si sia capovolta e poi rovesciata in mezzo a tutte le mani che ha toccato, gli occhi che ha incrociato, le voci che si sono sovrapposte alla sua. E’ un uomo nuovo quello che è tornato a casa ed ha imbracciato la chitarra che lo aspettava lì, quella che non porta ai concerti. E’ un uomo arricchito da tutta la vita e l’energia che ha incontrato e fatto sue. In uno scambio voluto e pieno fra la sua band e i fan.
“Una storia semplice tour” è  finito, ma l’energia di questi sei musicisti non si può contenere. Non sono stanchi, no. C’è troppa vita, troppa musica che gli esplode in petto. Così Sangiorgi conclude il suo lungo post: -Quello che ascolterete prestissimo avrà la vostra faccia. Una canzone con tutte le vostre facce, sempre. Non si è soli dopo un tour come questo. Si è infinite anime in un riflesso solo.”.
Il 24 gennaio scorso, questo ragazzo di Copertino ha compiuto trentacinque anni.

E’ un’artista esplosivo. Scrive testi e musiche per la sua band. Ma anche per altri cantanti. E poi ha sempre tenuto aperto il canale di comunicazione col cinema. Suo è il primo rockumentary italiano “Dall’altra parte della luna”.
Meravigliosi  i duetti “Ti vorrei sollevare” e “Basta così”  con Elisa. Un cuore solo non potrebbe mai reggere tutta l’emozione di quelle due voci straordinarie che si aspettano, si mischiano, si baciano, si corrono incontro e non si perdono mai.
Indimenticabile anche l’esibizione in coppia con Fiorella Mannoia sul palco di Campovolo per il concerto “Italia loves Emilia”. Mentre cantano “Anna e Marco”, gli occhi vanno istintivamente su. Perché è una notte magica quella. E Giuliano e Fiorella sembrano crederci davvero che, da un momento all’altro, fra le stelle, possa affacciarsi proprio Lucio Dalla e fargli un sorriso.
I Negramaro ne hanno fatta di strada. Dalle cantine leccesi dove suonavano agli esordi, sono arrivati ad un disco (“La Finestra”) registrato a San Francisco (nel 2007). Sono arrivati al grande successo di oggi. Di questo tour. Ma, forse, il segreto di questi ragazzi è proprio quello di saper sempre tornare “nei luoghi e il tempo in cui hai trovato ali, sogni e cuore”.
E visto che in questo blog si condividono ricette, anche quando si parla di musica e parole ed emozioni, mi piace concludere con questa immagine di Giuliano ai fornelli.
Magari sarà lui stesso a raccontarci cosa stava cucinando ... un abbraccione, vostra giò :))