"Cinque figli e un lavoro in paradiso"
storia vera di Anna Giordano, scritta da Giovanna Sica e pubblicata cinque anni fa sul settimanale Confidenze
Il
minestrone per il pranzo l’ho preparato. Per secondo ho tirato fuori dal
congelatore le cotolette di tacchino. I panni li ho già separati e smacchiati,
la signora delle pulizie deve solo far partire le lavatrici e poi per le altre
faccende le ho lasciato tutto scritto in un post-it attaccato al frigo, come
sempre. Filomena, la mia primogenita quindicenne, è andata a scuola a piedi;
oggi ha un corso nel primo pomeriggio, quindi non torna per pranzo. Maria, la seconda, anni otto, è scesa col papà che la porterà in macchina
alle elementari Santa Chiara. Federica, Francesca e Giuseppe,
rispettivamente sei, quattro e due anni, li accompagno io all’asilo.
Respiro. Tutto a posto. Posso correre a lavoro!
Mi chiamo
Anna, 35 anni appena compiuti, sono felicemente sposata con Rosario, ho cinque
figli e lavoro a tempo pieno all’ Eden, il
centro estetico mio e di mio marito. Spesso le clienti, che arrivano da me
trafelate durante la pausa pranzo, per un manicure o per farsi applicare le
extension alle ciglia, mi chiedono come faccio, che superpoteri ho per tenere
assieme una famiglia con cinque figli e un lavoro che mi impegna da mattina a
sera. Io, di solito, abbozzo un sorriso timido e aggiungo che ho degli aiuti,
ma loro non sembrano convinte, perché, spesso, le mie clienti di figli ne hanno
solo uno, due al massimo, eppure sono sempre in affanno. Vorrei spiegargli che
sono stata in affanno anch’io, che ho sofferto tanto per questa famiglia che
ora stringo fra le mani. Che forse proprio perché sono stata tanto male, adesso
la fatica quotidiana non mi pesa, o meglio, la fatica c’è, eccome se c’è: non
arriva sera che non mi scopra distrutta e che io non mi chieda come ho fatto a
conquistare il letto. Il fatto è che la mia è una felicità che mi è uscita
dagli occhi, la fatica è passata in secondo piano.
Sono stata sempre molto giudiziosa, fin da bambina. Mai un
colpo di testa, neanche durante l’adolescenza. Quando espressi il desiderio di voler
frequentare la scuola di estetica, anziché l’istituto alberghiero, mia madre mi
accontentò. Mio papà non era d’accordo: la mia famiglia ha un grande ristorante
con terrazze panoramiche: il sogno del mio babbo era che tutti e quattro i suoi
figli lavorassero nell’attività che avevano creato lui e sua moglie. Infatti, mia sorella e miei due fratelli hanno
frequentato la scuola alberghiera proprio per prepararsi a gestire il ristorante di famiglia. Solo che io, che pure aiutavo volentieri la mia mamma in cucina, c'avevo un altro sogno nel cuore, un sogno che aveva a che fare con lo scintillio degli
ombretti, con la consistenza degli smalti. Un sogno che aveva lo stesso profumo
delle creme che si stendono sul viso con massaggio delicato. Mi piaceva persino
l’odore che emanava la cera, quando la riscaldavo per depilarmi. Mi piaceva più
del sapore di ragù, che regnava nella cucina del ristorante dei miei genitori. Frequentai
la scuola di estetica, ma gli accordi erano che avrei comunque lavorato assieme
agli altri componenti della mia famiglia nella ristorazione: sarei stata
estetista per hobby, mi sarei “divertita” a truccare le mie sorelle, le amiche,
la mamma. Intanto a 15 anni mi fidanzai con un ragazzo che faceva il pizzaiolo in
una città molto lontana dalla mia. Ci vedevamo due volte l’anno, così mi
convinsi che l’unica soluzione per stare assieme fosse quella di sposarci: lui
si sarebbe trasferito al mio paese e sarebbe diventato il pizzaiolo del nostro locale. Mi sposai a 18 anni e quando ne compii 20 cullavo fra le
mie braccia Filomena. Solo che non riuscivo ancora a sentirmi felice e lo
sapevo cos’era che mi mancava: io volevo fare il mestiere per cui avevo
studiato. Convinsi i miei genitori (anche da sposata ero rimasta a vivere con
loro che possedevano una casa molto grande) a permettermi di cercare un impiego
in un centro estetico. Acconsentirono a un part-time. Così, 15 anni fa, misi
per la prima volta piede dentro la stanza in cui sono appena entrata stamattina.
Non mi pareva vero che finalmente potessi fare l’estetista! Solo che manco
arrivai che il proprietario del centro ebbe qualche problema con la sua
fidanzata, con cui all’epoca gestiva l’attività e, dopo solo due mesi che avevo
cominciato a lavorare per lui, non lo vidi più. Dalla sera alla mattina.
Sparito, non c’era più. Suo fratello Josè mi chiese se me la sentivo di
prendere in mano la gestione del centro; senza pensarci su nemmeno un attimo,
risposi di sì. Ce la potevo fare. Anche se ero molto giovane. Anche se non
avevo esperienza. Anche se sarebbe stata dura far accettare ai miei genitori e
a mio marito il mio nuovo impegno a tempo pieno. Ma quando una cosa la si
desidera veramente, il modo per ottenerla lo si trova sempre. Io lo trovai. Ed
ero soddisfatta, anche se oberata di lavoro. Il mio primo anno di permanenza
all’Eden volò, ero tanto impegnata e tanto presa. Dai clienti. Dai corsi di
formazione. Dai ritmi frenetici degli appuntamenti. Forse fu per questo che non
ci badai molto quando il titolare fece di nuovo capolino dietro la scrivania
all’ingresso. Era tornato. Rosario. Rosario, il mio futuro marito, solo che io, allora, mica lo sapevo. Invece credo che lui fu s’innamorò subito di me,
tanto è vero che cominciò immediatamente a farmi una corte serrata che io
rifiutai con garbo fino a che riuscii. La verità era che anch’io mi ero
innamorata di quel giovane uomo, ma, accipicchia, io ero l’ex bambina giudiziosa,
quella che non si era mai concessa una follia manco a dieci anni, figuriamoci
se potevo permettermela quando i mie anni erano raddoppiati, ed ero sposata e
avevo una figlia. No no no. Come mi era venuta quella frenesia così mi sarebbe
passata. E pensai di aver chiuso l’argomento con me stessa. Ma l’amore è
dispettoso, quello se ne infischia di tutti i nostri buoni propositi, quello ti
scoppia in petto e poi se la dà a gambe, come un bambino monello che fa
esplodere un petardo e poi scappa e ti lascia lì, da solo, ad aspettare il botto,
che sai benissimo che non potrai evitare neanche tappandoti le orecchie. Ecco, per
me è così che è andata. Il mio amore per Rosario è stato ineluttabile, fosse
dipeso da me mi sarei sottratta volentieri, pure perché lo sapevo in casa mia
sarebbe venuto giù il mondo… Quando i miei genitori capirono che c’era un altro
uomo nella mia vita, senza saper né leggere e né scrivere mi chiusero in casa. Da quel momento in poi avremmo fatto a modo loro. Non sarei più andata a lavoro. Me ne sarei stata
buona a casa mia a crescere mia figlia, a dormire con mio marito e tutto si sarebbe
sistemato. Seh seh. Che vuoi sistemare. Ma che vuoi rabberciare? Io ci provai,
ci provai, non servì a nulla. L’assenza di Rosario era più forte di tutto. Ero
stata costretta a lasciare il lavoro all’improvviso, mia madre aveva telefonato
e aveva detto che non sarei più andata. E soprattutto aveva intimato al mio
titolare di non cercarmi mai più. Forse anche lui come me ci provò. O forse Rosario
non si applicò nemmeno, tanto già lo sapeva che non poteva dimenticarmi per
assecondare la volontà della mia famiglia. Anche mia suocera provò a far
ragionare il figlio. “E’ sposata, ha una bambina, la devi lasciar stare!” gli
gridò. Non so esattamente cosa lui gli rispose, ma credo furono parole talmente
belle e struggenti che Maria, sua madre, non se la sentì di replicare più
nulla. Dopo qualche mese dall’esplosione della bomba, Rosario riuscì a farmi
avere un cellulare da una nostra cliente che venne a trovarmi a casa, così
riprendemmo a sentirci. Dimagrii tantissimo; ero sciupata, assente, apatica.
Perché non me ne andavo? Non potevo. Avevo una gran paura che se abbandonavo la
mia casa questo avrebbe inciso nell’affidamento di Filomena, durante la separazione. Passarono non so come dieci mesi.
Dieci mesi in cui, pur soffrendo tantissimo, non cedetti di un millimetro sulle
mie posizioni. A inizio dicembre di undici anni fa, presi la mia bambina e
me ne andai dalla casa dei miei genitori. Rosario aveva preparato un appartamento per me e lei; non si
trasferì subito da noi, per non turbare ulteriormente la piccola che già aveva
vissuto giorni difficili. Quello stesso dicembre tornai a fare visita ai miei
parenti per augurargli di trascorrere un Buon Natale. Non ho mai interrotto i
rapporti con i miei genitori, neanche nei momenti più difficili della mia
storia, perché dentro di me lo sapevo che avevano agito a fin di bene, per
proteggere il mio matrimonio, convinti che chiudendomi in casa sarei rinsavita
e tutto sarebbe tornato come prima. Tuttavia, nelle mie visite a mamma e papà
ero sempre da sola con mia figlia, Rosario non lo dovevo proprio nominare, se
volevo continuare a frequentarli. E pure quando la presenza di Rosario nella
mia vita cominciò a farsi notare in maniera indiscutibile, lui non era ospite
gradito. Così, son passati Natali, anniversari e feste dei nipoti a cui dovevo
partecipare sempre da sola. Da sola con Filomena e il pancione. Da sola con
Filomena, Maria e il pancione. Da sola con Filomena, Maria, Federica e
Francesca nel pancione andavo a sposarmi. Con Filomena, Maria, Federica,
Francesca e Giuseppe, finalmente la mia famiglia accettò anche Rosario. Ogni
volta che partorivo mia madre veniva a trovarmi in ospedale come se fossi stata
una lontana parente e non sua figlia. Mi portava i fiori, mi chiedeva del
parto. Ignorava Rosario, stava un poco e se ne andava. Poi, quando ero in grado
di recarmi da loro ci rivedevamo. Così sono passati gli anni. Con me che andavo
dai miei genitori. Col pancione, coi figli, ma non con l’uomo della mia vita.
L’uomo per il quale la mia vita l’avevo cambiata. Stravolta. Capovolta.
Accartocciata e poi risistemata. Però andavo sempre e non mi stancavo mai. Con
la speranza che mi dicessero la prossima volta vieni con lui. Fino all’ultimo
parto. Con l’arrivo di Giuseppe si son sciolti tutti i nodi. I miei genitori
hanno dovuto capire per forza. Che quello che mi legava a Rosario era un amore
grande. Un amore che aveva messo al mondo quattro figli. Il battesimo del
mio piccolo principe l’abbiamo festeggiato al ristorante della mia famiglia.
Fra le mura di quel posto a me tanto caro. Dove sono cresciuta e da dove è
partita la mia piccola grande ribellione. Ora capirete bene perché quando le
mie clienti mi chiedono come faccio a tenere tutto assieme mi viene da
sorridere. Ho scalato montagne molto alte per ottenere questa felicità. E poi
dalla cima mi sono buttata sicura che non sarei caduta, che non mi sarei fatta
male. Sicura che l’amore aggiusta tutto. E così è stato. Ora mi vedo
attraversare la mia vita in un campo di fiori. Sono in pianura, adesso,
l’orizzonte è ben visibile e non fa più paura. Sono grata alla sorella di mio
marito, per esserci stata sempre; Carmela, mia cognata, è infermiera presso
l’ospedale in cui io ho partorito tutti i miei bambini. Ogni volta che son
arrivate le doglie, lei si è messa in macchina con me e suo fratello, e mi è
stata vicina fino a che non mi mettevano un altro figlio in braccio. Sono
grata a mia suocera che mi ha accolto nella sua famiglia senza pregiudizi e
senza riserve. Per lei sono stata da subito la donna che suo figlio amava e
questo le è bastato a volermi bene. A sostenermi. Se oggi continuo a fare il
lavoro che amo, e che mi impegna tanto, nonostante sia madre di cinque figli, lo
devo a lei. A lei che dopo ogni parto, tempo 15 giorni, un mese al massimo,
affidavo il nascituro di turno e riprendevo in mano l’organizzazione del
centro. Lei si è occupata a tempo pieno dei mie bambini fino al compimento del
primo anno di vita, quando erano pronti per frequentare l’asilo. Così come all’inizio
della mia storia mia madre si prese cura di Filomena per permettermi di
realizzare il sogno di fare l’estetista.
Ed ora, eccomi qui. Con questa giornata che è appena
cominciata. Sono arrivata all’Eden, saluto le ragazze, mi prendo un tè verde
alla macchinetta e vado a preparare la sala massaggio che fra dieci minuti
dovrebbe presentarsi la prima cliente. Faccio partire il climatizzatore così la
stanza sarà piacevolmente calda quando la signora P. si spoglierà; metto sul
lettino un asciugamano pulito e la fascia monouso per i capelli. Accendo le
candele. E’ tutto pronto. Do uno sguardo agli appuntamenti della giornata e sì,
ricordavo bene: non potrò tornare a casa per il pranzo. Ieri ho inserito alle
13:30 la prova trucco per Sara che si sposa fra un mese ed è molto preoccupata, perché
ancora non abbiamo deciso il make up per il giorno del suo sposalizio. Io ho
provato a rassicurarla a telefono: “Sara, hai un naso piccolo e due occhi
intensi dentro un ovale perfetto, sei giovane, che vuoi che c’abbiamo da
provare? Io non voglio stravolgere il tuo viso con un trucco pesante. Io ti
vedo sposa con uno chignon in testa e una passata di rimmel accompagnata da un
velo di gloss”. Ma non devo averla convinta perché comunque ha insistito per raggiungermi
oggi nella pausa pranzo. E vabbe’. Rosario e Maria se la caveranno benissimo
anche senza di me. All’ una saranno messi solo due piatti sul tavolo della mia
cucina: Filomena resta a scuola e Francesca e Giuseppe e Fede mangiano
all’asilo. E poi, devo confessarvelo: il cuoco di casa mia è mio marito, non
io! E’ lui che la sera cucina per tutti e sette, e la domenica, che viene a
pranzo da noi anche la sua famiglia, Rosario si alza presto per preparare con
cura il ragù. Per farmi perdonare l’assenza a pranzo, stasera ospiterò la tribù
al completo nel lettone! Oddio, è sempre più difficile starci tutti, e poi
Filomena si lamenterà che i fratelli vogliono vedere solo serie televisive da
bambini e poi Maria e Federica si lamenteranno che i più piccoli vogliono
vedere solo cartoni animati, io invece ho rinunciato da tempo a fare la mia
proposta! Come sempre non ci metteremo d’accordo, non vedremo un bel niente.
Filomena se ne andrà per prima per mettersi a chattare con gli amici, Maria la
seguirà perché sua sorella grande è un mito per lei e adora emularla, Fede
abbandonerà la nave per il troppo caldo. Resteremo io Rosario, Francesca e
Giuseppe, e quando anche loro si lasceranno andare al tempo dei sogni, li
prenderemo in braccio, uno io e l’altro mio marito, e, forse, finalmente,
potremo starcene un po’ abbracciati anche io e lui.