mercoledì 8 febbraio 2023

"Cinque figli e un lavoro in paradiso"



storia vera di Anna Giordano, scritta da Giovanna Sica e pubblicata cinque anni fa sul settimanale Confidenze

Il minestrone per il pranzo l’ho preparato. Per secondo ho tirato fuori dal congelatore le cotolette di tacchino. I panni li ho già separati e smacchiati, la signora delle pulizie deve solo far partire le lavatrici e poi per le altre faccende le ho lasciato tutto scritto in un post-it attaccato al frigo, come sempre. Filomena, la mia primogenita quindicenne, è andata a scuola a piedi; oggi ha un corso nel primo pomeriggio, quindi non torna per pranzo. Maria, la seconda, anni otto, è scesa col papà che la porterà  in macchina  alle elementari Santa Chiara. Federica, Francesca e Giuseppe, rispettivamente sei, quattro e due anni, li accompagno io all’asilo. Respiro. Tutto a posto. Posso correre a lavoro!

Mi chiamo Anna, 35 anni appena compiuti, sono felicemente sposata con Rosario, ho cinque figli e lavoro a tempo pieno all’ Eden, il centro estetico mio e di mio marito. Spesso le clienti, che arrivano da me trafelate durante la pausa pranzo, per un manicure o per farsi applicare le extension alle ciglia, mi chiedono come faccio, che superpoteri ho per tenere assieme una famiglia con cinque figli e un lavoro che mi impegna da mattina a sera. Io, di solito, abbozzo un sorriso timido e aggiungo che ho degli aiuti, ma loro non sembrano convinte, perché, spesso, le mie clienti di figli ne hanno solo uno, due al massimo, eppure sono sempre in affanno. Vorrei spiegargli che sono stata in affanno anch’io, che ho sofferto tanto per questa famiglia che ora stringo fra le mani. Che forse proprio perché sono stata tanto male, adesso la fatica quotidiana non mi pesa, o meglio, la fatica c’è, eccome se c’è: non arriva sera che non mi scopra distrutta e che io non mi chieda come ho fatto a conquistare il letto. Il fatto è che la mia è una felicità che mi è uscita dagli occhi, la fatica è passata in secondo piano.

Sono stata sempre molto giudiziosa, fin da bambina. Mai un colpo di testa, neanche durante l’adolescenza. Quando espressi il desiderio di voler frequentare la scuola di estetica, anziché l’istituto alberghiero, mia madre mi accontentò. Mio papà non era d’accordo: la mia famiglia ha un grande ristorante con terrazze panoramiche: il sogno del mio babbo era che tutti e quattro i suoi figli lavorassero nell’attività che avevano creato lui e sua moglie. Infatti, mia sorella e miei due fratelli  hanno frequentato la scuola alberghiera proprio per prepararsi a gestire il ristorante di famiglia. Solo che io, che pure aiutavo volentieri la mia mamma in cucina, c'avevo un altro sogno nel cuore, un sogno che aveva a che fare con lo scintillio degli ombretti, con la consistenza degli smalti. Un sogno che aveva lo stesso profumo delle creme che si stendono sul viso con massaggio delicato. Mi piaceva persino l’odore che emanava la cera, quando la riscaldavo per depilarmi. Mi piaceva più del sapore di ragù, che regnava nella cucina del ristorante dei miei genitori. Frequentai la scuola di estetica, ma gli accordi erano che avrei comunque lavorato assieme agli altri componenti della mia famiglia nella ristorazione: sarei stata estetista per hobby, mi sarei “divertita” a truccare le mie sorelle, le amiche, la mamma. Intanto a 15 anni mi fidanzai con un ragazzo che faceva il pizzaiolo in una città molto lontana dalla mia. Ci vedevamo due volte l’anno, così mi convinsi che l’unica soluzione per stare assieme fosse quella di sposarci: lui si sarebbe trasferito al mio paese e sarebbe diventato il pizzaiolo del nostro locale. Mi sposai a 18 anni e quando ne compii 20 cullavo fra le mie braccia Filomena. Solo che non riuscivo ancora a sentirmi felice e lo sapevo cos’era che mi mancava: io volevo fare il mestiere per cui avevo studiato. Convinsi i miei genitori (anche da sposata ero rimasta a vivere con loro che possedevano una casa molto grande) a permettermi di cercare un impiego in un centro estetico. Acconsentirono a un part-time. Così, 15 anni fa, misi per la prima volta piede dentro la stanza in cui sono appena entrata stamattina. Non mi pareva vero che finalmente potessi fare l’estetista! Solo che manco arrivai che il proprietario del centro ebbe qualche problema con la sua fidanzata, con cui all’epoca gestiva l’attività e, dopo solo due mesi che avevo cominciato a lavorare per lui, non lo vidi più. Dalla sera alla mattina. Sparito, non c’era più. Suo fratello Josè mi chiese se me la sentivo di prendere in mano la gestione del centro; senza pensarci su nemmeno un attimo, risposi di sì. Ce la potevo fare. Anche se ero molto giovane. Anche se non avevo esperienza. Anche se sarebbe stata dura far accettare ai miei genitori e a mio marito il mio nuovo impegno a tempo pieno. Ma quando una cosa la si desidera veramente, il modo per ottenerla lo si trova sempre. Io lo trovai. Ed ero soddisfatta, anche se oberata di lavoro. Il mio primo anno di permanenza all’Eden volò, ero tanto impegnata e tanto presa. Dai clienti. Dai corsi di formazione. Dai ritmi frenetici degli appuntamenti. Forse fu per questo che non ci badai molto quando il titolare fece di nuovo capolino dietro la scrivania all’ingresso. Era tornato. Rosario. Rosario, il mio futuro marito, solo che io,  allora, mica lo sapevo. Invece credo che lui fu s’innamorò subito di me, tanto è vero che cominciò immediatamente a farmi una corte serrata che io rifiutai con garbo fino a che riuscii. La verità era che anch’io mi ero innamorata di quel giovane uomo, ma, accipicchia, io ero l’ex bambina giudiziosa, quella che non si era mai concessa una follia manco a dieci anni, figuriamoci se potevo permettermela quando i mie anni erano raddoppiati, ed ero sposata e avevo una figlia. No no no. Come mi era venuta quella frenesia così mi sarebbe passata. E pensai di aver chiuso l’argomento con me stessa. Ma l’amore è dispettoso, quello se ne infischia di tutti i nostri buoni propositi, quello ti scoppia in petto e poi se la dà a gambe, come un bambino monello che fa esplodere un petardo e poi scappa e ti lascia lì, da solo, ad aspettare il botto, che sai benissimo che non potrai evitare neanche tappandoti le orecchie. Ecco, per me è così che è andata. Il mio amore per Rosario è stato ineluttabile, fosse dipeso da me mi sarei sottratta volentieri, pure perché lo sapevo in casa mia sarebbe venuto giù il mondo… Quando i miei genitori capirono che c’era un altro uomo nella mia vita, senza saper né leggere e né scrivere mi chiusero in casa. Da quel momento in poi avremmo fatto a modo loro. Non sarei più andata a lavoro. Me ne sarei stata buona a casa mia a crescere mia figlia, a dormire con mio marito e tutto si sarebbe sistemato. Seh seh. Che vuoi sistemare. Ma che vuoi rabberciare? Io ci provai, ci provai, non servì a nulla. L’assenza di Rosario era più forte di tutto. Ero stata costretta a lasciare il lavoro all’improvviso, mia madre aveva telefonato e aveva detto che non sarei più andata. E soprattutto aveva intimato al mio titolare di non cercarmi mai più. Forse anche lui come me ci provò. O forse Rosario non si applicò nemmeno, tanto già lo sapeva che non poteva dimenticarmi per assecondare la volontà della mia famiglia. Anche mia suocera provò a far ragionare il figlio. “E’ sposata, ha una bambina, la devi lasciar stare!” gli gridò. Non so esattamente cosa lui gli rispose, ma credo furono parole talmente belle e struggenti che Maria, sua madre, non se la sentì di replicare più nulla. Dopo qualche mese dall’esplosione della bomba, Rosario riuscì a farmi avere un cellulare da una nostra cliente che venne a trovarmi a casa, così riprendemmo a sentirci. Dimagrii tantissimo; ero sciupata, assente, apatica. Perché non me ne andavo? Non potevo. Avevo una gran paura che se abbandonavo la mia casa questo avrebbe inciso nell’affidamento di Filomena, durante  la separazione. Passarono non so come dieci mesi. Dieci mesi in cui, pur soffrendo tantissimo, non cedetti di un millimetro sulle mie posizioni. A inizio dicembre di undici anni fa, presi la mia bambina e me ne andai dalla casa dei miei genitori. Rosario aveva preparato un appartamento per me e lei; non si trasferì subito da noi, per non turbare ulteriormente la piccola che già aveva vissuto giorni difficili. Quello stesso dicembre tornai a fare visita ai miei parenti per augurargli di trascorrere un Buon Natale. Non ho mai interrotto i rapporti con i miei genitori, neanche nei momenti più difficili della mia storia, perché dentro di me lo sapevo che avevano agito a fin di bene, per proteggere il mio matrimonio, convinti che chiudendomi in casa sarei rinsavita e tutto sarebbe tornato come prima. Tuttavia, nelle mie visite a mamma e papà ero sempre da sola con mia figlia, Rosario non lo dovevo proprio nominare, se volevo continuare a frequentarli. E pure quando la presenza di Rosario nella mia vita cominciò a farsi notare in maniera indiscutibile, lui non era ospite gradito. Così, son passati Natali, anniversari e feste dei nipoti a cui dovevo partecipare sempre da sola. Da sola con Filomena e il pancione. Da sola con Filomena, Maria e il pancione. Da sola con Filomena, Maria, Federica e Francesca nel pancione andavo a sposarmi. Con Filomena, Maria, Federica, Francesca e Giuseppe, finalmente la mia famiglia accettò anche Rosario. Ogni volta che partorivo mia madre veniva a trovarmi in ospedale come se fossi stata una lontana parente e non sua figlia. Mi portava i fiori, mi chiedeva del parto. Ignorava Rosario, stava un poco e se ne andava. Poi, quando ero in grado di recarmi da loro ci rivedevamo. Così sono passati gli anni. Con me che andavo dai miei genitori. Col pancione, coi figli, ma non con l’uomo della mia vita. L’uomo per il quale la mia vita l’avevo cambiata. Stravolta. Capovolta. Accartocciata e poi risistemata. Però andavo sempre e non mi stancavo mai. Con la speranza che mi dicessero la prossima volta vieni con lui. Fino all’ultimo parto. Con l’arrivo di Giuseppe si son sciolti tutti i nodi. I miei genitori hanno dovuto capire per forza. Che quello che mi legava a Rosario era un amore grande. Un amore che aveva messo al mondo quattro figli. Il battesimo del mio piccolo principe l’abbiamo festeggiato al ristorante della mia famiglia. Fra le mura di quel posto a me tanto caro. Dove sono cresciuta e da dove è partita la mia piccola grande ribellione. Ora capirete bene perché quando le mie clienti mi chiedono come faccio a tenere tutto assieme mi viene da sorridere. Ho scalato montagne molto alte per ottenere questa felicità. E poi dalla cima mi sono buttata sicura che non sarei caduta, che non mi sarei fatta male. Sicura che l’amore aggiusta tutto. E così è stato. Ora mi vedo attraversare la mia vita in un campo di fiori. Sono in pianura, adesso, l’orizzonte è ben visibile e non fa più paura. Sono grata alla sorella di mio marito, per esserci stata sempre; Carmela, mia cognata, è infermiera presso l’ospedale in cui io ho partorito tutti i miei bambini. Ogni volta che son arrivate le doglie, lei si è messa in macchina con me e suo fratello, e mi è stata vicina fino a che non mi mettevano un altro figlio in braccio. Sono grata a mia suocera che mi ha accolto nella sua famiglia senza pregiudizi e senza riserve. Per lei sono stata da subito la donna che suo figlio amava e questo le è bastato a volermi bene. A sostenermi. Se oggi continuo a fare il lavoro che amo, e che mi impegna tanto, nonostante sia madre di cinque figli, lo devo a lei. A lei che dopo ogni parto, tempo 15 giorni, un mese al massimo, affidavo il nascituro di turno e riprendevo in mano l’organizzazione del centro. Lei si è occupata a tempo pieno dei mie bambini fino al compimento del primo anno di vita, quando erano pronti per frequentare l’asilo. Così come all’inizio della mia storia mia madre si prese cura di Filomena per permettermi di realizzare il sogno di fare l’estetista.

Ed ora, eccomi qui. Con questa giornata che è appena cominciata. Sono arrivata all’Eden, saluto le ragazze, mi prendo un tè verde alla macchinetta e vado a preparare la sala massaggio che fra dieci minuti dovrebbe presentarsi la prima cliente. Faccio partire il climatizzatore così la stanza sarà piacevolmente calda quando la signora P. si spoglierà; metto sul lettino un asciugamano pulito e la fascia monouso per i capelli. Accendo le candele. E’ tutto pronto. Do uno sguardo agli appuntamenti della giornata e sì, ricordavo bene: non potrò tornare a casa per il pranzo. Ieri ho inserito alle 13:30 la prova trucco per Sara che si sposa fra un mese ed è molto preoccupata, perché ancora non abbiamo deciso il make up per il giorno del suo sposalizio. Io ho provato a rassicurarla a telefono: “Sara, hai un naso piccolo e due occhi intensi dentro un ovale perfetto, sei giovane, che vuoi che c’abbiamo da provare? Io non voglio stravolgere il tuo viso con un trucco pesante. Io ti vedo sposa con uno chignon in testa e una passata di rimmel accompagnata da un velo di gloss”. Ma non devo averla convinta perché comunque ha insistito per raggiungermi oggi nella pausa pranzo. E vabbe’. Rosario e Maria se la caveranno benissimo anche senza di me. All’ una saranno messi solo due piatti sul tavolo della mia cucina: Filomena resta a scuola e Francesca e Giuseppe e Fede mangiano all’asilo. E poi, devo confessarvelo: il cuoco di casa mia è mio marito, non io! E’ lui che la sera cucina per tutti e sette, e la domenica, che viene a pranzo da noi anche la sua famiglia, Rosario si alza presto per preparare con cura il ragù. Per farmi perdonare l’assenza a pranzo, stasera ospiterò la tribù al completo nel lettone! Oddio, è sempre più difficile starci tutti, e poi Filomena si lamenterà che i fratelli vogliono vedere solo serie televisive da bambini e poi Maria e Federica si lamenteranno che i più piccoli vogliono vedere solo cartoni animati, io invece ho rinunciato da tempo a fare la mia proposta! Come sempre non ci metteremo d’accordo, non vedremo un bel niente. Filomena se ne andrà per prima per mettersi a chattare con gli amici, Maria la seguirà perché sua sorella grande è un mito per lei e adora emularla, Fede abbandonerà la nave per il troppo caldo. Resteremo io Rosario, Francesca e Giuseppe, e quando anche loro si lasceranno andare al tempo dei sogni, li prenderemo in braccio, uno io e l’altro mio marito, e, forse, finalmente, potremo starcene un po’ abbracciati anche io e lui.








giovedì 2 febbraio 2023

 Famiglia Principe


Questa è la storia di Enzo e Rosanna Principe, scritta da Giovanna Sica e pubblicata sul settimanale Confidenze circa 10 anni fa.




Enzo: -Rosanna, oggi mi sento un po’ scarico. Sii gentile, fammi un bel caffè. Non posso certo permettere che i nostri clienti mi trovino così abbattuto! No, i clienti sono sacri, e quando vengono da noi, io voglio che stiano bene. Solo grandi sorrisi. Lo sai, è da tanto tempo, ormai, che li riconosco più dalla voce che con gli occhi. Ma a loro non glielo faccio mai capire -

Rosanna: -Ecco il caffè. Però dopo vedi di dire due parole ai ragazzi, prima che li prenda a padellate! Il primo sarà tuo figlio: sono anni che gli dico di scrivere le ordinazioni più chiaramente, e sono anni che da un orecchio gli entra e dall’altro gli esce. A volte, mi fanno innervosire così tanto, tutti quanti, che vorrei togliermi il grembiule e andarmene…ma poi penso: “Dove vado io, lontano dal ristorante?”-

Enzo: -Dai, non ti arrabbiare per così poco! Stanotte ho sognato mio padre. Eravamo nella sua cantina. Quella specie di bettola dov’è nata la nostra tradizione di ristoratori, negli anni Quaranta. Mio padre, cestaio di professione, in certi periodi dell’anno metteva una frasca fuori alla cantina e quell’era il segno che la bettola era aperta. Che aveva qualcosa da offrire ai suoi clienti. Magari aveva lavorato il maiale o aveva preparato la soffritta da mangiare col pane di grano duro. Nel sogno, mio padre e io avevamo più o meno la stessa età. Eravamo seduti su un gradino. Lui, rompendo il silenzio, mi ha chiesto: -Enzo, pensi ancora che ne valga la pena? -. Ma io mi son svegliato e non ho fatto in tempo a capire di cosa stesse parlando. Secondo te che voleva dirmi? -

Rosanna: -Che voleva dirti, Enzo! Era solo un sogno. Ti ricordi quando venivi con tuo padre a fare l’erba per gli animali da zia Antonietta? Tu eri impacciato, io manco alzavo mai gli occhi dai fiori. Ma lui, tuo padre, Lorenzo Principe detto Peppe Pirulett’, mi scelse subito. Forse, prima che lo facessi tu. -Antonietta, dove la tenevi nascosta, questa bella figliola? – domandò la prima volta che mi vide. Tre anni dopo eravamo già sposati. Sei stato l’unico uomo della mia vita. All’epoca eri cameriere al ristorante Europa. Lì festeggiammo pure il nostro matrimonio. Io mi figuravo casalinga… E chi l’avrebbe mai detto, allora, che avrei passato quarant’anni, qua, dentro la cucina di un ristorante? -

Enzo: -Io invece lo sapevo già a undici anni che sarei diventato ristoratore. Quando cominciai a fare il garzone di ristorante, quello che oggi viene chiamato apprendista, desiderai subito averne uno tutto mio. E così quando i miei datori di lavoro mi proposero di prendere in gestione il ristorante Europa, accettai subito, insieme a mio fratello-

Rosanna: -“Tutto tuo”, appunto. Ma allora io che c’azzeccavo? Avevo vent’anni, un figlio da crescere e non avevo mai messo piede fuori di casa. Ero terrorizzata! Ma tu mi volesti al tuo fianco. Non feci scuole per cuochi, il mestiere me lo rubai con gli occhi, guardando tuo fratello. E poi tutti i collaboratori che sono passati nella mia cucina. Perché tutti hanno qualcosa da insegnare, anche l’ultimo arrivato-

Enzo: -In che anno prendemmo l’Europa? Era il 1973, vero? Ti ricordi che acquario troneggiava in mezzo alla sala? I clienti potevano sceglierseli vivi, i pesci. Preparavamo banchetti per matrimoni anche di duecento persone. A pranzo riempivamo la sala tre volte. Erano gli anni Ottanta, gli anni del benessere. Nella nostra clientela c’era di tutto, non ci facevamo mancare niente: dal guappo di strada al politico, passando per gli imprenditori; ma anche operai, impiegati, giornalisti, gente dello spettacolo-

Rosanna: -Gli anni correvano veloci. Quattro anni dopo il primogenito, Lorenzo, nacque Antonella. Forse, l’unico rimpianto che ho è proprio quello di aver goduto poco dei ragazzi, quando erano piccoli. Per il resto, non possiamo lamentarci: facevamo meravigliose vacanze a Ischia, week-end (che per chi fa questo mestiere non sono il sabato e la domenica ma il lunedì e il martedì!) in giro per l’Italia. Quando Antonella tira fuori le foto dei nostri viaggi, dice sempre ridendo: ”Mamma, però si vede proprio che ero una bambina ricca!”-

Enzo: -Poi sono arrivati i tempi duri. Il sogno dell’Europa svanì per noi nel 1993. Si era conclusa un’epoca. Si era messa la parola fine a un sodalizio. I ragazzi che, fino ad allora avevano avuto giorni spensierati, capirono subito che la nostra vita non sarebbe stata mai più la stessa. Riprendemmo a lavorare, inventandoci un piccolo club. Tuo padre e tua madre ci portavano le verdure che coltivavano nella loro terra, pur di farci andare avanti. Ci hanno sempre aiutato tanto. Che dici, li avremo ringraziati abbastanza? -

Rosanna: -Enzo, ma che vai a pensare stamattina! Ti pare che mio padre e mia madre volevano esser ringraziati? Loro volevano solo saperci felici-

Enzo: -E pensare che per i nostri figli non volevamo questa vita così sacrificata -

Rosanna- Forse è così che doveva andare. In fondo, fu Lorenzo che decise che non era finita. Io, quel giorno, non lo potrò mai dimenticare. È stato il giorno in cui nostro figlio è diventato grande. Rinchiuse in uno sgabuzzino la batteria, l’aeronautica e tutti i suoi sogni. Li mise via senza pensarci un attimo e si rimboccò le maniche assieme a sua sorella. L’hanno fatto per te. L’hanno fatto per amore-

Enzo: -Credi che non lo sappia? Spero solo sappiano quanto gli sono grato. Non so se gliel’ho mai detto -

Rosanna: -Enzo, ma che diavolo ti è preso oggi che vuoi ringraziare tutti? Scusa se te lo dico, ma stai proprio invecchiando! -

Enzo: -Forse è come dici tu. Sono già diciassette anni che siamo quassù, fra le braccia dei monti Lattari. Qui è nata la nostra seconda figlia femmina: Luna Galante. Ma non mi sento arrivato, questo è un mestiere in cui non si arriva mai al traguardo. Siamo passati per mille mode e tendenze e poi siamo tornati alla tradizione. Mi manca la vetrina del pesce sempre piena. E persino le nostre leggendarie litigate perché ne compravo sempre troppo! -

 

Rosanna: - La vetrina del pesce non la nominare nemmeno, ché tengo ancora la padella in mano! Ne compravi talmente tanto che era impossibile venderlo tutto e dovevamo mangiarcelo noi, per tre giorni di fila, e alla fine non era più nemmeno così fresco-

Enzo: - Mi sembra ancora di sentire le urla! Però che bello che i piatti della nostra tradizione siano tornati in voga nella versione classica, dopo tutte le possibili rivisitazioni-

Rosanna: -Perché anche la cucina fa i suoi giri. E un piatto che fino a un anno prima era richiestissimo, all’improvviso, non lo vuole più nessuno. Solo il nostro Scarpariello alla Principe non è mai diventato vintage! I nostri clienti sono trent’anni che lo mangiano e non si sono mica saziati! A noi rimane la soddisfazione di esser stati tra i primi ad aver fatto il sugo con i corbarini, i pomodorini di Corbara, e un pizzico di peperoncino. Semplice, ma inimitabile -

Enzo: -Ho imparato, in questi anni, a capire le persone da quello che mangiano. So quando sono qui per festeggiare e non vogliono badare a spese. So quando sono qui per porre fine a un amore, allora resto al loro tavolo meno possibile, perché hanno bisogno di star soli. So quando sono padri separati che vedono i figli nel fine settimana. So quando sono marito e moglie e so pure quando invece sono amanti. A volte, uno stesso cliente può venire con la moglie e poi, come se niente fosse, anche con l’amante, nella stessa settimana! Io non batto mai ciglio. Lorena te la ricordi? -

Rosanna: -Veniva spesso con uomini diversi –

Enzo: -“Enzo, ma non mi riconoscete mai!” esclamò una volta. Allora io le risposi: “Lorena cara, io so che stai entrando nel mio ristorante già solo dalla  tua inconfondibile risata che riempie le scale. Ma non posso sapere se il tuo accompagnatore sa che qui ci sei già stata. Se tu vuoi ci conosciamo, sennò è sempre la prima volta che ci vediamo!”  Lei capì. Annuì. Ringraziò con un sospiro. Il mio compito non è quello di assolvere o condannare i nostri clienti, per quello ci sono i preti. A me interessa solo che qui, in casa nostra, stiano bene. Se vogliono “confessarsi”, io li sto pure a sentire, ma deve essere un loro desiderio e mai una mia curiosità. Come quella volta che Agnese fu lasciata dal fidanzato con un bigliettino -

Rosanna: -Meno male che i clienti vengono a confessarsi da te. A me bastano i problemi dei miei ragazzi, quelli che lavorano con noi. Tu hai sempre detto che me li adotto tutti. Ma a volte sono gli eventi che me lo impongono. Perchè, magari, una mamma a casa non ce ’hanno. Perchè, a volte, c’hanno moglie e figli già a vent’anni, e non sanno nemmeno loro come sia successo -

Enzo: -Tu non solo decidi di adottarli tutti, ma poi pretendi pure che io gli faccia da padre putativo! Da quando in sala abbiamo Giovannino, il nostro gigante buono, non ci sono uova che bastino: finiscono tutte nella sua carbonara. A noi fai i piatti e a lui lasci direttamente la padella! -

Rosanna: -Alfonso invece ama i fusilli coi porcini. Ma devono essere quelli buoni! E se li merita, eccome! Dovessi andare io stessa a raccoglierli in montagna. Ma ti rendi conto che pazienza che c’ha quel ragazzo con nostro figlio, che gli fa smontare e rimontare il ristorante un giorno sì e l’altro pure? -

Enzo: - Però confessalo: Agostino detto Agostinelli è il tuo preferito -

Rosanna: -Agostino è come un figlio. È in cucina con me da ben 14 anni, e ne ha solo 28.Ti ricordi che, quand’era più piccolo, dormiva nel lettino affianco al nostro? Soprattutto d’estate, quando si finiva tardissimo la sera, lui preferiva dormire con noi. Come un figlio, appunto. Adesso ha smesso, s’è fatto grande. E poi c’ha sta’ bella fidanzata che lo aspetta!-

Enzo: -Però anche tu stai invecchiando. Non mi hai ancora detto se ti ricordi di Agnese e Stefano -

Rosanna: -Ma se mi sembra ieri che li vidi scambiarsi il primo bacio nel nostro parcheggio! Erano così belli assieme che facevano bene agli occhi. Poi qualcosa cambiò. Era come se continuassero a venire qui più per rassicurarsi che tutto andava bene, che per il piacere di passare la serata assieme -

Enzo: - A tavola non parlavano più. Non si guardavano nemmeno. Ognuno restava dalla sua parte. Non c’erano più le loro mani strette sul tavolo. Mangiavano in fretta e scappavano via, subito dopo. E poi, quell’ultima sera che vennero insieme, Stefano scappò via da solo. Era estate, stavano cenando sul terrazzo piccolo. Agnese salì le scale per andare al bagno al piano di sopra e lui le lasciò un bigliettino sul tavolo e se ne andò. Quando la vidi piangere, da sola, col bigliettino in mano, non sapevo che fare. Poi fu lei a togliermi dall’imbarazzo. Mi invitò a sedermi un attimo, che poi divenne un’ora e mezza in cui Agnese tirò fuori tutto quello che avrebbe voluto dire a Stefano, ma non ne aveva avuto il tempo. O forse il coraggio. La consolai. Trovai le parole giuste, quelle che avrei detto a nostra figlia -

Rosanna: -E poi ci toccò pure di riaccompagnarla a casa! Dopo quanto tempo tornò? -

Enzo: -Circa un anno dopo. Raggiante con un altro fidanzato. E deve esser stato proprio quello giusto, se poi si sono sposati, e quando vengono, adesso, c’hanno pure due ingombranti passeggini con loro! Stefano invece non s’è più visto -

Rosanna: -A volte, quando la sera mi metto a letto mi chiedo dove l’ho trovata la forza che mi è servita, in questi quarant’anni. Pensavo di fare la casalinga e poi mi sono ritrovata a gestire un ristorante, i figli, i dipendenti. I clienti che vengono in cucina a salutarmi e vogliono sentire una delle mie battute. Io cerco di non deluderli mai, anche quando ho altre cose per la testa e mi andrebbe di starmene un po’ da sola. E non sempre in piazza, sempre sul carrozzone del circo. Ma questo è il prezzo da pagare: questa vita vissuta così tanto mi ha dato e tanto mi ha tolto. Chissà se Antonella deciderà di percorrere la mia stessa strada, adesso che pure lei è mamma e sta iniziando a capire qual è il prezzo da pagare. Io che posso dirle? Continua? Scappa più lontano che puoi fin che se in tempo? Io credo che lei  abbia già scelto la sua strada, forse l’unica possibile, anche se non è vero che si sceglie sempre. A volte la vita ti porta dove decide lei -

Enzo: - Hai ragione, Rosa, tanto ci ha dato, questa vita vissuta così, e tanto c’ha tolto -

Rosanna: -Sì, Enzo, però non pensarci proprio a ringraziare pure me, che con me non te la cavi con così poco! -

Enzo: - Lo so. A te devo fare una statua d’oro giù nel parcheggio. Ci farò scrivere sotto: “Alla mia donna grande...in tutti i sensi!” -

Rosanna: -Vedo che la voglia di sfottere però non ti è passata mica! -

Enzo: -No, per fortuna. Che ne dici della nostra ultima sfida?-

Rosanna: - “Nu’ murzill’ “? Dico che tu e tuo figlio c’avete “la capa fresca”! -

Enzo: - No, perché? Nu’ murzill’ è il passato che ritorna. Il boccone dell’amore, quello che una volta le mamme si toglievano di bocca per darlo ai figli. E forse con l’austerità di questi anni, sarà ancora così -

Rosanna: - Sì, bello assai, quasi mi commuovo. Però sono io che ogni santo giorno devo preparare un piatto tipico con prodotti della nostra terra. Piatti semplici, come la frittata di maccheroni con la sugna o la minestra maritata, ma che richiedono tempo e cura-

Enzo: -Ma servirà per tenerci stretti i sapori della domenica della nostra infanzia. Lo sai che Lorenzo non ci dorme la notte per queste cose -

Rosanna: -Guarda che quello non dorme perchè c’ha Vincenzo di cinque anni, Ernesto di otto mesi e la moglie di nuovo incinta. Ah, sembra proprio che stavolta Annamaria aspetti una femmina!

Enzo: -Speriamo, sennò la vedo proprio messa male con tre figli maschi più il marito! -

Rosanna: - Caro Enzo, non so da dove è arrivata stamattina tutta questa nostalgia del passato. Forse davvero ci stiamo facendo vecchi. Sappi solo che tornassi indietro io rifarei tutto. Lo rifarei per te, perché so che sei felice di questa vita che sta passando fra le mura del nostro ristorante, nonostante gli affanni. Dai, ora vatti a riposare un po’, chè stanotte hai dormito poco e male -.




Rosanna torna in cucina, chè li c’ha sempre i rosari delle verdure che l’aspettano. Enzo s’affaccia in sala, gli piace vederla preparata, coi bicchieri che splendono sui tavoli e i fiori proprio al centro. E poi sente come un richiamo, qualcosa lo spinge a voltarsi. Non gli si palesa suo padre, però sente la sua presenza nell’atrio del ristorante. Allora gli dà la risposta che non aveva fatto in tempo a dargli in sogno…

“Papà, sì che ne è valsa la pena. Dovessi rinascere cento volte, cento volte rifarei questo mestiere. Nonostante i pensieri, le preoccupazioni, gli affanni, questo mestiere mi ha reso felice. L'ho portato avanti con passo leggero. Col sorriso. Se stanotte mi sei venuto in sogno e mi hai portato nella tua cantina per mettere sulla tua vecchia bilancia le gioie e i dolori di questi miei anni, ti dico subito che le prime sono state di più. Fra soddisfazioni e delusioni, le prime hanno avuto la meglio. Ti posso dire, papà, con tanta umiltà, che anche se non sono diventato ricco, ho lasciato un segno nella ristorazione. Ho creato un precedente: rimango il figlio del cestaio, ma sono anche Enzo Principe, il padre del linguino alla Principe. Stappo una bottiglia di vino e brindo a te. Alla famiglia Principe e alla vita in sé” e poi, sorridendo, si mette in testa il cappello da regista che tanto gli piace, e se ne va su, a riposarsi.


Giovanna Sica

sabato 5 marzo 2022

 





Lucio Dalla, “Il profeta bambino”

di Giovanna Sica, articolo pubblicato su Confidenze, Stile Italia Edizioni, n.16 – 6 aprile 2021

 

 

Quando sei nato lo sa tutto il mondo: 4/3/1943 è il titolo della tua canzone forse più famosa, e io sono sempre stata tanto fiera di condividere con te il giorno del mio compleanno.

La prima volte che sali su un palco hai tre anni. A sette, sei già orfano di padre. Mamma Iole, modista bolognese, è una presenza forte e contraddittoria. La scuola non fa per te, sei troppo irrequieto. A 10 anni ti regalano il clarinetto, un lustro dopo sei già un jazzista. Ti esibisci nei locali e all’uscita ti metti a parlare con barboni e prostitute. Sei affamato di facce, non dormi mai. Nel 1960, con la Rheno Dixieland Band parteci al Primo Festival europeo del Jazz e lo vinci. Gino Paoli, conosciuto al Cantagiro 1963, intuisce il tuo genio e ti propone per Sanremo, tre anni dopo. Presenti una canzone originale Pafff…Bum ma troppo avanti per i tempi.

Brani e sentimento

Sei



al Festival anche l’anno successivo, con un testo che si rivelerà beffardo. Luigi Tenco si toglie la vita durante quella edizione; spudoratamente la gara continua e tu intoni Bisogna saper perdere. S’affaccia il ’68 col suo carico rivoluzionario; gli altri artisti prendono posizioni politiche, tu no. “Sono uno che canta come sente” dichiari. E sei anche un uomo di fede; Padre Pio, conosciuto da bambino giù in Puglia, è una figura di riferimento. È in questo periodo che incontri il giovane Rosalino Cellammare, che poi diventerà per tutti Ron. Prendi casa alle isole Tremiti e lì componi la musica per Gesubambino, su testo immaginifico di Paola Pallottino, illustratrice e poetessa. “Dice che era un bell’uomo e veniva, veniva dal mare/ Parlava un’altra lingua, però sapeva amare”. Partono le trattative con la Rai per portarlo a Sanremo: vengono censurati il titolo e due strofe. Con 4/3/1963 conquisti il terzo posto e il grande pubblico. Segue l’album Storie di casa mia in cui emerge il brano squassante, ancora di Paola, Il gigante e la bambina. Torni all’Ariston nel 1972 con Piazza Grande, un pezzo meraviglioso, ma guadagni solo l’ottavo posto. Hai trent’anni quando ti presentano il poeta Roberto Roversi. Lui scrive i versi per il disco Il giorno aveva cinque teste, tu le musiche. Canti i danni dello smog. Gli emigranti e gli operai che muoiono sul lavoro. Il disco vende pochissimo, ma tu ti sei sorpassato ancora una volta: ti importa scuotere le coscienze. Seguono altri due album con Roversi, Anidride solforosa e Automobili, una trilogia di grande valore artistico. Poi finisce l’intesa anche col poeta. Hai suonato il jazz, cantato brani scemi, popolari e impegnati. Hanno scritto per te parolieri (Bardotti e Baldazzi) e poeti. E adesso, che ti inventi, Lucio? È il momento di cantare le tue emozioni, le tue visioni.

Talento visionario

Riparti dallo scippo di tuo padre per arrivare alla violenza che esercitano i potenti sui deboli. “È inutile, non c’è più lavoro/ Non c’è più decoro/ Dio o chi per lui/ Sta cercando di dividerci/ Di farci del male /Di farci annegare”, Com’è profondo il mare, da cui prende il nome il tuo primo disco da cantautore, è l’anno 1977. Due anni dopo esce “Lucio Dalla” ed è un successo senza precedenti. “Si esce poco la sera, compreso quando è festa/ E c’è chi ha messo dei sacchi di sabbia vicino alla finestra/ E si sta senza parlare per intere settimane/ E a quelli che hanno niente da dire del tempo ne rimane”, L’anno che verrà. 42 anni dopo fanno tremare queste tue strofe profetiche. Arriva il momento di un tour indimenticabile con Francesco De Gregori, Banana Republic. E poi l’estate dell’80; sei a Roma e vederla finalmente a festa, ubriaca di gente, ti fa mettere al pianoforte e tirare fuori: “Si muove la città/ Con le piazze e i giardini e la gente nei bar/ Galleggia e se ne va/ Anche senza corrente camminerà”. Prendi una serata come tante e la fai diventare La sera dei miracoli; in questa ballata visionaria Roma se la porta via il mare. Il terzo album tutto tuo, lo chiami semplicemente Dalla e dentro ci troviamo le tue canzoni più belle di sempre. Balla balla ballerino. Cara. Futura, scritta su una panchina su cui ti siedi a guardare il Muro di Berlino. Immagini due fidanzati divisi da quello sbarramento di cemento armato; non hanno paura del futuro, tanto è vero che fanno l’amore e pensano a un figlio, una femmina, a cui vogliono dare un nome che è una dichiarazione d’intenti. Sei consapevole di avere fantasia, talento e voglia di libertà. Viaggi organizzati esce nel 1984 con la tua casa discografica, la Pressing; è un album in cui si sente l’influenza della musica dance e della tua curiosità per il mondo telematico. L’anno dopo fai un disco a cui dai un titolo che la sa lunga: Bugie. Tu che da sempre infarcisci la vita di frottole, decidi, col candore di un bambino, di sbugiardarti. E poi succede che Catarro, la tua barca, va in avaria vicino a Sorrento e tu chiedi ospitalità al Grand Hotel Excelsior Vittoria. Vuoi vedere la suite di Caruso, e una volta lì dentro ci vuoi restare. A cena ti raccontano la leggenda del grande tenore che, anche se convalescente, ogni sera, al tramonto, si faceva portare il pianoforte in terrazza e riempiva l’aria con la sua voce magnifica, con il suo canto era per una donna di cui si era innamorato. Lo immagini struggersi e finire i suoi giorni onorando la vita, “Ma quando vide la luna uscire da una nuvola/ gli sembrò più dolce anche la morte”. Caruso è un successo mondiale.

Il 4 luglio del 1988 parte un tour magico con l’amico Morandi: l’elfo delle favole e il ragazzo senza età finalmente insieme. A settembre del 1990 esci con Cambio. Con Attenti al lupo ancora una volta spiazzi tutti, ma adesso lo fai con disinvoltura: non devi più dimostrare niente, puoi permetterti di giocare, e poi di colpo tornare serio, e così fai con Henna, l’album successivo. Hai intuizioni che assecondano i tuoi frenetici mutamenti di pelle, accade anche in Canzoni. Saluti il Novecento con Ciao e inauguri il nuovo millennio con uno show televisivo, in prima serata su Rai Uno, con Sabrina Ferilli, La bella e la Besthia, e un musical: Tosca: amore disperato. Sei avido di novità, di sorpassi. Sei sempre circondato da amici. Sei Domenico Sputo, il tuo alter ego che suona il sax nelle canzoni degli artisti scoperti da te, come Luca Carboni e Samuele Bersani. Sei un maghetto e forse non ti fermi mai perché lo senti che non avrai una vita lunga. Raggiungi il Cielo il primo marzo 2012. Ed è lì che mi piace immaginarti, a guardare da questa parte col solito lampo negli occhi e la tua perenne curiosità. Mentre ci dici, come hai scritto: “È da quello squarcio di cielo e di cuore che vi ascolterò anche quando nessuno mi vorrà ascoltare… É da lì in alto, fino a quando ci sarà una finestra, che il mio cuore continuerà a cantare la vita e la storia che la prende”.

 

 

domenica 13 febbraio 2022

Covid e altri impazzimenti

 


“Covid e altri impazzimenti” di Giovanna Sica

 

Il Covid mi ha raggiunto nello spazio stretto di un camerino in cui stavo misurando un paio di pantaloni. In una gamba avevo i pantaloni miei, nell’altra quelli nuovi. Ha squillato il cellulare. Due volte. Il cellulare era nella profondità oscura della borsa. Avevo le mani impegnate, la mascherina spiaccicata sulla faccia. Non riuscivo a trovarlo, ma quello non smetteva di suonare. “Sono positivo”. “…”. “Hai capito?”. “Arrivo”. “Signora, vuole vedere anche un cardigan da abbinare su questi pantaloni?” echeggia da lontano la voce della commessa. E come glielo spiego, adesso, a questa gentile signorina, che vorrei lasciarle qui pure i pantaloni che fino a due minuti fa mi piacevano tanto? “No, devo andare, mi faccia pagare, per favore”. Pago e dall’ansia che mi è salita faccio cascare l’aggeggio del bancomat. Mi scuso. Esco dal negozio e realizzo che mi illudevo che a noi non sarebbe successo, ché siamo stati sempre tanto attenti e rispettosi delle regole. Realizzo che ho paura perché il Covid fa paura, anche dopo due anni e i vaccini. Che beffa. Mio figlio aveva la terza dose dopodomani. Non l’aveva ancora fatta perché stavamo aspettando che passasse del tempo dalla seconda dose di vaccino contro il Papilloma virus, ché quando ho scoperto che si possono vaccinare anche i maschi contro il Papilloma (anche i maschi che per età il vaccino non glielo passa l’ASL, alla piccola -si fa per dire- cifra di 210 euro in tre comode rate), ho pensato che era giusto immunizzare contro il Papilloma anche il Diciassettenne. Raggiungo mio figlio, al netto del mal di schiena e un po’ di spossatezza, sta bene. Non ha febbre. Un pensiero cattivo mi fa subito un calcolo a mente che nessuno gli ho chiesto: son passati più di sei mesi dalla seconda dose, chissà se il ragazzo ha ancora gli anticorpi o è completamente indifeso contro Omicron. Sdrammatizzo col Positivo e ce ne andiamo subito a casa. Lui si va a barricare in camera sua, io provvedo a mettere da lavare i suoi panni e tutto ciò che ha toccato negli ultimi giorni. Scende una prima notte che mi scopre a guardare il soffitto. Non voglio abbandonarmi al sonno, ho paura che succeda qualcosa a mio figlio mentre io dormo. Il secondo giorno arriva il mal di gola. Informo il medico di base via Whatsapp che da questo momento inizia a seguirlo. Il terzo giorno sopraggiunge la tosse. La tosse mi fa paura, ma, ringraziando Dio e il vaccino, dura solo tre giorni. Il quarto giorno c’è un gran sole. Ne approfitto per pulire e disinfettare con più enfasi. Mi manca giusto scrostare i muri e poi posso dire di aver sanificato ogni angolo dell’appartamento. Il pomeriggio del quinto giorno porto a fare il tampone alla figlia undicenne che torna a scuola dopo 14 giorni di Dad, dovuti alla positività di due compagni di classe. Già che son qui, già che ho fatto la fila, quasi quasi un tampone lo faccio anch’io (lo avevamo fatto anche il giorno dopo che era risultato positivo il Diciassettenne, ormai viviamo sotto lo strozzo della farmacia) ché mi pizzica un po’ la gola; sicuramente dipende dal fatto che ieri sono stata tutta la mattinata al vento e al sole, e comunque nessuno mi obbliga: lo Stato ha decretato che io e mio marito, che abbiamo fatto anche la booster, dobbiamo solo praticare l’auto-sorveglianza e continuare a indossare la Ffp2. E se invece fossi positiva anch’io? Come faccio a mandare mia figlia a scuola con questo dubbio? Negativa mia figlia, positiva io. Meno male che ho seguito il mio istinto. La preoccupazione per la mia carne non è certo quella che ho provato per mio figlio; e poi io ho fatto la terza dose, 10 giorni fa. Non posso finire in terapia intensiva. E soprattutto non posso morire. Sono preoccupata invece per la Undicenne, a questo punto potrebbe positivizzarsi pure lei, e anche se ha completato la copertura vaccinale, vorrei proprio che se lo risparmiasse. Siamo in pareggio nella mia famiglia: due positivi e due negativi. Dobbiamo isolarci tutti, neanche i due negativi possono più stare assieme, adesso ognuno di noi deve giocarsi la sua partita, e speriamo che non vinca il nemico. Io lamento mal di gola e un po’ di febbre, i primi tre giorni. Poi solo spossatezza, raffreddore, sintomi tipo influenza, che se non fosse che il Covid ha fatto quello che ha fatto negli ultimi due anni, non sarebbe niente di che; insomma, le pareti di casa mia hanno visto influenze molto più toste, con febbri a 40° che bruciavano sulla fronte dei figli, che si son portate via un bel po’ della mia salute. Continuano i lunghi scambi epistolari col medico di famiglia. Se conto le battute, sono sicura di aver scritto di più a lui negli ultimi 13 giorni che a mio marito, in vent’anni che stiamo assieme. E mentre Mahmood e Blanco cantano “A volte non so esprimermi”, penso che io invece so esprimermi benissimo, con dovizia di particolari, ed è una fortuna, considerato che solo a parole posso spiegare tutti i sintomi alla persona che ci sta curando a distanza, persona che se mette assieme tutti i miei Whatsapp può pubblicare per me il mio secondo romanzo. Devo dire che il dottore, Giovanni Brengola, a questo punto mi pare cosa buona e giusta citarlo con nome e cognome e ringraziarlo, mi risponde sempre. E se all’inizio mi pare brutto disturbare la sera o di domenica, poi succede sempre qualcosa su cui voglio confrontarmi con lui, e lui, puntuale e disponibile, mi scioglie ogni dubbio.  Meno male che leggo e scrivo, sennò come mi passerebbe il tempo stipata nella mia cameretta? Meno male che è la settimana del Festival e della leggerezza sanremese. Peccato che devo stare lontano dalla ragazza mia. Il nostro rituale della sera prevede che ce ne stiamo avvinghiate nel lettone a vedere le nostre fiction del cuore, e lo stesso facciamo ogni anno con Sanremo. Quest’anno ci arrangiamo a stare assieme in video chiamata. Chiedo a mio marito di sbloccare le limitazioni al cellulare della Undicenne, per il fine settimana, chè io e lei abbiamo un Festival da seguire e possiamo farlo solo via Whatsapp. Mi fa una grande tenerezza Bianca, la mia adorata cagnolina, che non si capacita che non faccio entrare neanche lei in camera mia. Fa il giro del balcone e viene a fare la laconica davanti alla mia porta finestra. A volte faccio pensieri scemi, soprattutto quando cala il buio e non ci sono manco più gli alberi e i passanti in strada a farmi compagnia. Tipo che è colpa mia che io e mio figlio ci siamo presi il Covid, visto che qualche giorno primo ero andata a comprare per me e lui i pigiami nuovi, et voilà: ci sono serviti subito. Ma il pigiama, poi, l’ho preso anche al marito, ora che ci penso. Si positivizzerà anche lui? Ma no, gli AstraZeneca+Pfizer sono i più forti di tutti. Comunque non ho perso l’olfatto, l’odore del soffritto del coinquilino adulto si spande in tutta casa e si infila pure sotto la mia porta! E pensare che nella mia vita da negativa l’olio evo non s’è mai arricciato in una mia padella! E che ai figli al pomeriggio preparavo delle gran tagliate di frutta fresca e secca per mantenerli in buona salute (comunque alla merenda sana sta continuando a provvedere il papà). Ma veniamo al rapporto con l’USCA, cioè il rapporto che una famiglia come la mia, spaccata in due dal Covid, dovrebbe avere con le Unità Speciali di Continuità Assistenziale, create appositamente nel marzo 2020 per gestire a domicilio i pazienti sospetti o accertati Covid-19 che non necessitano di ricovero ospedaliero. L’USCA si è palesata nelle nostre vite -dopo 9 giorni dalla positività accertata di mio figlio- con una telefonata in cui chiedeva al ragazzo se il tampone di controllo io e lui preferivamo farlo assieme l’8 febbraio (due giorni prima per me, che ci poteva stare visto ché nel frattempo un nuovo decreto aveva accorciato la durata dell’isolamento) o il 10 (due giorni in più di reclusione per lui, che quando hai 17 anni e stai chiuso nella cameretta da 10 giorni equivalgono a due anni). A parte il fatto che uno si chiede come mai L’USCA contatti un minorenne per discettare su tali questioni e non la sua genitrice, tra l’altro positiva pure lei, ma, poi, nonostante il minorenne e il padre del minorenne, che interviene nella conversazione, diano la migliore risposta possibile: “Chiedete a mia madre, chiedete a mia moglie”, l’Unità Speciale torna a eclissarsi nel buio da cui era emersa. Cerco i numeri telefonici dell’USCA, passo solo -si fa per dire- due ore e quaranta della mia vita a tentare di richiamare, ma ahimè, è più facile parlare col Padreterno che con l’USCA. Eppure non siamo più nel vortice di fine anno scorso, il numero dei contagi è calato. Tant’è. Mi piglia una crisi di nervi. Ma poi mi ricordo che devo stare calma, respira Giovanna, respira profondamente e medita ché se ti viene il sangue amaro ti si abbassano le difese immunitarie e Omicron ti mangia in testa. Optiamo ancora una volta per un tampone a pagamento per mio figlio. Negativo, evviva Dio. Giorno successivo, tampone, sempre a pagamento, per la Undicenne. Negativo. Evviva evviva evviva. I miei figli tornano a scuola, sono felice. Io resto nella mia cameretta, e sento che adesso sono davvero sola. Il nemico secondo me se ne è andato. Ma non posso esserne certa fino a dopodomani che farò un altro tampone, il primo, seddiovuole, a cui provvederà l’USCA. Al netto della paura, dei sintomi influenzali, dell’esaurimento nervoso e di una barca di soldi in tamponi, integratori e antinfiammatori, sto bene. Stiamo tutti bene. Grazie ai vaccini ce la siamo cavata a buon prezzo. A chiusura di questo racconto, anche esilarante, ma che dice molte cose a chi le vuol capire, non posso non dedicare un pensiero a tutti quelli che hanno perso la vita a causa di questo maledetto virus. E anche a tutti quelli che hanno perso una persona cara senza averla potuto nemmeno accompagnare nell’ultimo viaggio.

Vi abbraccio, forte, chè nel frattempo di sicuro mi sono negativizzata.

P.S. E invece sono ancora positiva, o almeno lo ero fino a tre giorni fa che ho fatto il tampone con l’USCA. E dopo 26 ora circa ho ricevuto il tanto sospirato risultato. Purtroppo non quello sperato. A questo punto posso decidere di continuare la reclusione in cameretta per un’altra settimana (più un giorno o forse due per aver l’esito, l’USCA si prende fino a 48 ore per comunicarmelo) e rifare il tampone molecolare, oppure recarmi in farmacia e praticare quello antigenico il cui esito, che arriva di solito in mezz’ora, è equiparato a quello molecolare, sia per decretare la guarigione sia per riattivare il Green Pass, il tutto al piccolo -si fa per dire- prezzo di 15 euro. Bah, sarò io che sono offuscata dal raffreddore persistente e da Omicron, ma mi viene spontaneo chiedermi: perché non provvedono le ASL ai tamponi antigenici snellendo le quarantene, e non facendo perdere più tempo -e soldi- del necessario alle persone già provate dal Covid e dall’isolamento fiduciario? Se non avessi provveduto a fare i tamponi in farmacia ai miei figli, avrebbero perso altri giorni di scuola in presenza, e i discenti, soprattutto quelli campani, banchi, lavagne e facce dei compagni di classe, negli ultimi due anni li hanno visti solo attraverso uno schermo. E se io proprio non avessi potuto permettermeli i test a pagamento? Mi sa che li investo altri 15 euro in un altro tampone antigenico, sperando che sia l’ultimo, non è concepibile pensare di stare altri otto giorni in isolamento: che valore ha il mio tempo per chi mi governa? E poi, i due infermieri che si alternano nella farmacia in cui vado di solito sono gentilissimi e ti passano con estrema delicatezza solo la punta dell’asticella nella narice, tipo cotton fioc. E non è vero che se non ti arrivano al cervello il Covid non lo sbugiardano. Il giorno che son risultata positiva, l’infermiere mi aveva fatto solo un piccolo giretto nella parte più esterna delle narici, e, dopo 10 minuti, ero ancora lì a comprare la Vitamina C e altri integratori, la farmacista mi ha chiamato in disparte e mi ha comunicato l’esito.

E quindi anche sabato e domenica stipata nella cameretta, vado a fare il tampone domani, lunedì 14 febbraio, San Valentino, sperando che Amore mi strappi di dosso -per sempre- questo fottutissimo figlio di puttana (scusate il francesismo in chiusura).

 

venerdì 7 gennaio 2022

Epifania e altre magie a "La Girandola"

 

Ph: Raffaele Iuliano


È difficile per me scegliere il punto da cui partire con questa storia.

Ci starebbe bene un “C’era una volta…”, sembra quasi una favola!

Quando ho saputo dell'esistenza nel paese in cui vivo (Nocera Superiore, Salerno) di un’associazione (composta da 12 ragazzi disabili e le loro famiglie) che ha la sede solo all’aperto, sono andata a bussare al cancello verde che dà sul giardino in cui ha messo radici La Girandola; nella terra che le è stata donata dai fratelli Antonio, Felice e Teresa Petti. Ad attendermi dietro quella porticina c’erano delle persone che desideravano essere viste e ascoltate. Dodici ragazzi meravigliosi. E con loro padri, madri, fratelli e sorelle meravigliosi. La disabilità, penso lo sappiate, non riguarda mai solo l’individuo che ne è colpito, ma tutta la famiglia di cui fa parte. Il sostegno va a tutti i componenti di un nucleo familiare che ha un andamento diverso rispetto agli altri. Un andamento più affaticato. Eh sì, strilliamolo forte che qui parliamo di persone che fanno una fatica enorme, psicologicamente e fisicamente, tutti i giorni che Dio manda in Terra. Io pensavo di avere un solo “potere” per migliorare la vita delle persone: l’ascolto. Anzi tre: ascoltare, immedesimarmi e poi scrivere. Dare voce a chi non ne ha. E invece, ho scoperto che posso fare anche di più: accentrare forze e competenze al servizio di una buona causa. Mi era capitato di adoperarmi per creare delle relazioni (penso alla mia Silvy al limitare del bosco!), ma mai avevo pensato di alzare il telefono e chiedere qualcosa. Era uno degli ultimi pomeriggi dell’anno 2021 e io ho fatto quattro telefonate per organizzare una mattinata di gioia, folclore, musica e buon cibo alla Girandola. Sul giorno in cui fare la festa non avevo dubbi: sei gennaio, il giorno del dono per eccellenza. Epifania è parola che viene dal greco e significa manifestazione. E io questo volevo: che alla Girandola si manifestassero tre (gruppi di) re magi! Ho chiesto a Giovanni Scarano se volesse essere lo sponsor ufficiale dell’evento con La Nina ortofrutta. A Giuseppe Ferrigno, presidente dei Cavalieri della Bolla Pontificia di Cava de’ Tirreni, se potesse assieme ai suoi uomini portare alla Girandola il folclore, la tradizione e la solidarietà che incarna l’associazione che presiede. Ho domandato ai Maestri Enrico e Serena Della Monica se potessero dedicare un concerto ai miei nuovi amici. E a Lorenzo Principe di Famiglia Principe 1968 se fosse possibile attrezzare un buffet con i loro gustosissimi fritti. Tutti mi hanno risposto: “Sì. A disposizione. Con piacere. Dove e quando”. Io ero già appagata dalla disponibilità delle persone coinvolte! Per me era già una roba enorme, commovente! E invece quello era solo l’inizio. Ho telefonato anche a Giulia Verdoliva, che avevo visto in più occasioni ballare mentre i Della Monica suonavano. E pure due fotografi, ho convocato: Francesco Gaito e Raffaele Iuliano, perché immaginavo che ci sarebbero stati tanti momenti emozionanti, soffiati nell’aria dalla Girandola da acchiappare al volo. Sì, sì e ancora sì. Vi adoro tutti, amici miei!




Ph: Raffaele Iuliano

Il 6 gennaio 2022, alle ore 10 in punto come da accordi, i Cavalieri, in alta uniforme, erano davanti al cancello della Girandola. Hanno fatto il loro ingresso marciando e suonando, è stato davvero suggestivo. Il Regio Capitano, Giuseppe Ferrigno, ci ha narrato la storia dell’associazione e il mantra che la contraddistingue: essere presenti ovunque ci siano persone che hanno bisogno di essere “abbracciate”. Che bella cosa: da quando gli abbracci ci sono stati scippati abbiamo capito che hanno un valore enorme, anche quando sono solo pensati. Ferrigno ha insignito me e il presidente della Girandola, Vincenzo Spagnuolo, della medaglia dei Cavalieri, un onore immenso, e poi sono state consegnate caramelle e braccialetti con logo a tutti i ragazzi. Abbiamo brindato all’ amicizia fra Cavalieri e Girandola e sugellato il patto di collaborazione con la caprese buonissima della mamma di Rossella, una delle signorine della Girandola. Manco il tempo di salutare gli uomini ammantati dalla seta di San Leucio, che si è palesata al cancello verde la Befana, in carne e ossa! Che magia, avrei voluto chiederle di portarmi a fare un giro sulla sua scopa perché volevo prendere un po’ di distanza da tutta quella emozione che mi stava scoppiando in petto, ma non c’è stato tempo, sono arrivati i Maestri della Monica ed è continuata la festa. 


Ph: Francesco Gaito

Enrico Della Monica, padre di “I Figli del Vesuvio” è uno che ha insegnato per 40 anni nelle scuole medie e l’inclusività l’ha sempre praticata, veramente e non a chiacchiere, in tempi in cui non si sapeva manco che fosse. 

Serena, sua figlia, leader del gruppo “Le Ninfe della Tammorra”, ha seguito le orme del suo papà, anche lei insegna Musica nelle scuole medie e da poco è diventata Tutor accademico specializzato in didattica musicale inclusiva; lei e suo marito, il dottor



Ph: Francesco Gaito

Mimmo Carbone, hanno fondato la Free Sound Accademy che da maggio 2022 sarà operativa a Salerno. Enrico si trasfigura mentre percuote la tammorra. Canta a occhi chiusi. Serena lo accompagna con la fisarmonica, e poi mette in mano a tutti i ragazzi uno strumento per renderli parte integrante dello spettacolo. Ecco, qui si è consumato per me il momento più alto della festa: vedere i ragazzi suonare e sorridere è stata un’emozione che non scorderò finchè campo. A un certo punto, Francesco Gaito, mi ha fatto notare che Salvatore, Rossella, Alessandro e Michele si aiutavano l’un l’altro a fare musica. Subito dopo le ballerine vere e quelle improvvisate hanno fatto cerchio attorno a Fabio. Enrico e Serena ci hanno cantato delle nenie natalizie della tradizione popolare, e poi, a grande richiesta, Brigante se more di Eugenio Bennato. Serena Della Monica è venuta alla Girandola con suo marito e la sua piccola Linda, nata solo un mese e mezzo fa, pensate un po’ quanto ci teneva a esserci. Meno male che dopo tante emozioni ci siamo “calmati” a suon di pizzette, e altre prelibatezze preparate per noi da Antonella Principe. Vabbe’, qui ho giocato facile facile: Antonella è una delle persone più care che ho al mondo!


Ph: Raffaele Iuliano

Vincenzo Spagnuolo e Laura Milite, presidente e vice presidente dell’associazione hanno regalato a tutti noi che abbiamo portato allegria alla Girandola delle meravigliose opere in ceramica realizzate da loro assieme ai ragazzi. Io vedevo consegnare queste robe bellissime e mica l’avevo capito che ne avevano in serbo una anche per me! Anzi, due per me. Uno specchio magico che mi ricorderà ogni giorno, anche quando inciamperò in qualche bruttura, che il mondo è pieno di bellezza se lo guardi attraverso un cuore grande. E poi una fatina incantata e incantevole (l’ho chiamata Maria Sole) realizzata da Teresa Milite, sorella di Laura; la vice presidente ha letto al momento della consegna, una letterina carica di gratitudine e amore; io la ascoltavo, respiravo la sua emozione e mi convincevo sempre di più di essere stata catapultata dentro una favola…

E allora, favola sia! C’era una volta l’Epifania 2022 in cui mi sono trasformata in una Befana “color mare in lontananza” alcuni capiranno … e a proposito di mare e di sogni che si tingono di celeste, ieri ho donato alla Girandola il mio romanzo, Tuttoattaccato, con l’augurio che abbia al più presto una sede imbastita in cemento e mattoni per tenerlo al riparo, perché se un libro lo lasci sotto un gazebo, la pioggia prima o poi lo riempie d’acqua e dopo tocca solo buttarlo. E lo stesso vale per i sogni che lasciamo alle intemperie.

Io ringrazio ancora una volta tutti quelli che mi hanno sostenuto in questo progetto meraviglioso. Tutti i contributors nominati sono venuti alla Girandola gratuitamente; la donazione di Giovanni e Massimo Scarano di La Nina servirà a mettere le vetrate al gazebo e creare un piccolo angolo riparato nel giardino della Girandola:)) Ringrazio Vincenzo, Laura e tutte le madri, i padri, i fratelli e le sorelle della Girandola, persone stupende delle cui facce belle mi sono innamorata subito, la prima volta che le ho incontrate. Chiedo venia se ho scordato di citare o ringraziare qualcuno ma non faccio l’organizzatrice di eventi per mestiere. Sono solo una donna di buona volontà 😊

                                                                                              Giovanna Sica



Ph: Christian Palumbo

 

                                                                                

lunedì 25 ottobre 2021


 

Renato Zero, di Giovanna Sica, articolo pubblicato sulla rivista Confidenze, Stile Italia Edizioni, n.41 28 settembre 2021

 

“Mi presento così/ Così come mi vedi/ Spoglio di vanità/ Non nascondo segreti/ Io mi adatto se vuoi/ Quando si parla d’amore/ Io do il meglio di me/ Io mi faccio apprezzare”, L’amore sublime.

Che tu ti sia fatto apprezzare, caro Renato, non ci sono dubbi, e nemmeno che abbia indossato tante vite. Però, adesso, come faccio io a stringerti in due fogli? Proprio non ci stai, con le tue 500 canzoni, con il tuo carrozzone di inquietudine, sogni, travestimenti e trucchi. Con tutte le volte che sei stato il primo a fare la rivoluzione in questo Paese, a fermare il tempo e a ripartire…da Zero.

E allora ti racconterò per lampi e sgraffi, attraverso le cose che so di te che più hanno contribuito, secondo me, a fare di Renato Zero una leggenda vivente.

So che fra un po’, il 30 settembre, è il tuo compleanno, che nasci a Roma nel 1950, figlio di Domenico e Ada, e che, piccino piccino, a causa dell’anemia emolitica neonatale, per curarti ti cambiano tutto il sangue che hai nelle vene. So che frequenti fino al terzo anno l’Istituto di Stato per la cinematografia e la televisione Roberto Rossellini, ma poi lasci perché bruci dal desiderio di esibirti su un palco. Adolescente inizi a travestirti per esibirti nei locali romani, e per tutta risposta agli odiatori, che purtroppo son sempre esistiti, che ti dicono che sei uno zero, tu decidi che quel numero cardinale diventerà la tua cifra, che in quel cerchio si uniranno a te tutti quelli che sentono la tua stessa solitudine, l’inquietudine di vivere. Al Piper s’accorge di te Don Lurio e ti mette a ballare con i Collettoni per Rita Pavone; in quel gruppo incontri Loredana Bertè e grazie a lei diventi amico anche di sua sorella Mimì (Mia Martini). Tutti e tre girate la Penisola a bordo di una Seicento; giovani, folli, senza una lira in tasca e con tanta voglia di cantare. So che agli esordi della tua carriera siete tu e Orazio, il tuo furgone celeste; fai tutto da solo. Una volta, a Tortoreto Lido, quando la proprietaria del locale in cui devi cantare ti chiede dov’è Renato Zero tu menti spudoratamente: “È in albergo, sta riposando”.  

Il tuo primo album in studio, No! Mamma,no! è del 1973 e che la tua Madame, tre anni più tardi, è il primo pezzo dance italiano, è Vasco a lanciarla da Punto Radio, dalla sua Zocca.

“Quante volte ho guardato al cielo? / Ma il mio destino è cieco e non lo sa/ E non c’è pietà / Per chi non prega e si convincerà/ Che non è solo una macchia scura/ Il cielo” Il cielo. È il 1977 e tu con Zerofobia, quarto album in studio, ottieni un successo enorme. So che tuo papà muore nel 1980 e tu gli dedichi Tregua, e che nella sua ultima notte terrena ti racconta la sua vita, e tu accogli le sue parole come un dono immenso: entrare in confidenza con lui all’ultimo confine, anche se lui, secondo te, è già dall’altra parte, e ricorda la sua vita terrena con i suoi cari appena ritrovati, però in quell’estremo abbraccio fra la vita e la morte vuole te.

Il primo dicembre del 1981 tiri fuori Artide e Antartide, è il disco più venduto dell’anno e contiene canzoni di denuncia sociale. L’anno dopo nell’album Via Tagliamento 1965-1970 c’è una canzone, Contagio, che anticipa di quasi 40 anni un futuro distopico … “Che nessuno esca dalla città/ Guai a chi s’azzarda a guardare laggiù/ Oltre quel muro, oltre il futuro/ L’epidemia che si spande/ L’isolamento è un dovere oramai/ Dare la mano è vietato, se mai/ Soltanto un dito e l’errore sarà punito”. A metà degli Anni ’80 metti via costumi e colori eccentrici e cominci a vestirti di nero. Con Spalle al muro, 1991, Festival di Sanremo, ricevi la standing ovation del pubblico e ti classifichi secondo. L’anno dopo inizi a occuparti del tuo grande sogno, Fonòpoli, un’associazione culturale che promuove l’occupazione dei giovani nel mondo dell’arte e dello spettacolo, una cittadella della musica. “Tutti vogliono tutto per poi accorgersi che è niente/ Noi non faremo come l’altra gente/ Questi sono e resteranno per sempre…” I migliori anni della nostra vita, una delle tue canzoni di maggior successo è del 1995, che poi è l’anno che si porta via l’amica Mimì; so che tu appena apprendi la notizia della sua morte telefoni a Loredana e le dici di non accendere la tivù e corri subito da lei.  “Dov’è Mimì/ Dagli enormi cappelli/ Che folli giorni quelli/È ancora lì/ Che suona il suo piano/ Il canto suo/Perfetto richiamo”, La grande assente.

 Il tuo album che ho più a cuore è Amore dopo amore (1998) perché contiene le tue due canzoni che preferisco: Mi ameresti (Mi ameresti. Non provarci perderesti/ Da una vita stravissuta che ti aspetti/ Noi non siamo tutti uguali/ Ma l’amore non lo sa/ E fa danni devastanti ovunque va) e Dimmi chi dorme accanto a me (Amori brevi amori insoddisfatti/ Spero che non vi rivivrò mai più/ Ma non c’è amore che non ha difetti…/ Dove sei, dove sei, dove sei!). Quando parli di amori spezzati raggiungi un’intensità che è solo tua, lo struggimento di chi sa di cosa sta parlando. Nel 2003 adotti legalmente Roberto e gli dedichi Figlio. So che sei il primo in Italia a pubblicare un disco senza affidarsi a nessuna casa discografica per la distribuzione; l’album è Presente, l’anno è il 2009.

Zerolandia, Zerofobia, EroZero, Identikit Zero, Zero, Sei Zero, Zerovskij, Zero il folle…torna sempre nella tua carriera il numero da cui sei partito, diventa un’ossessione, una forma di riscatto collettivo, la ribellione tua e della tua gente, di Tutti gli zeri del mondo (titolo di un tuo programma televisivo del 2000).

Fra settembre e novembre 2020 esce il tuo ultimo lavoro, ZeroSettanta, un triplo regalo che fai a te stesso e ai tuoi fan per i tuoi settant’anni. Di queste 39 bellissime canzoni le mie preferite sono L’amore sublime e La carezza, dedicata a Ada e Virginia, le tue nipoti.  Sul secondo cd della trilogia scrivi: “Eccolo, lo Zero che ho scelto di essere. Sfrontato e sensibile. Scrupoloso e sognatore. Ruvido per difetto. Accomodante per eccesso. Quante volte sono stato Zero e quante altre Renato? Chi può dirlo? Posso però affermare con certezza che in due, ne hanno combinate di tutti i colori, “Insieme”. E di questi tempi festeggiano le loro nozze d’oro. Ce l’hanno fatta a rimanere saldi e propositivi… non si lasceranno più”. Signor Fiacchini (cognome all’anagrafe di Renato Zero), io so, anzi, sento che tu sei stato profondamente vero, sia nei panni di Renato che in quelli di Zero, e che con te questo numero ha cambiato faccia, per sempre.










mercoledì 15 settembre 2021

 


I Maneskin, di Giovanna Sica

Articolo pubblicato sul settimanale Confidenze n. 33, agosto 2021

 

 

E non c’è vento che fermi / La naturale potenza / Dal punto giusto di vista / Del vento senti l’ebbrezza / Con ali in cera alla schiena / Ricercherò quell’altezza / Se vuoi fermarmi ritenta / Prova a tagliarmi la testa …” Zitti e buoni.

Damiano David, anni 22, lo sguardo sicuro di chi sa dove sta andando, di chi mentre ti parla ti ha già sorpassato. Victoria De Angelis, anni 21, la faccia d’angelo e il fuoco al basso. Thomas Raggi, anni 20, l’aria trasognata di uno che viene da un altro mondo, la chitarra l’unico contatto col pianeta Terra. Ethan Torchio, anni 20, metà elfo e metà cavaliere, un portento alla batteria. E buonasera signore e signori, This is Maneskin, la prova viva e pulsante che quando c’ hai una marcia in più voli in alto senza manco prendere la rincorsa. Damiano, Victoria, Thomas ed Ethan sono quattro adolescenti romani quando si incontrano nel 2016. Victoria e Thomas suonavano già insieme, però il loro gruppo si era sciolto ed erano alla ricerca di voce e batteria. Erano alla ricerca di Damiano ed Ethan. Si riconoscono subito i quattro ragazzi della Capitale, sono pezzi che si incastrano alla perfezione ed esce scritto Maneskin.  Maneskin è una parola che arriva dalla Danimarca, vuol dire chiaro di luna, sicuramente la mette in mezzo Victoria, danese di madre. Chiaro di luna è proprio una bella suggestione, il riverbero della luce lunare, le infinite possibili magie. È il 2017 quando la band partecipa a X Factor, Manuel Agnelli, il loro perfetto mentore. I Maneskin sono dirompenti, originali, sfrontati. Eppure non vincono, almeno sulla carta. Esce Chosen (il brano con cui si erano presentati alle audizioni del talent), prodotto da quel genio della musica che è Lucio Fabbri. E sì, Damiano, sei il pifferaio magico, tu canti follow me follow me now e noi non possiamo fare a meno di obbedire. È marzo del 2018 quando viene pubblicato il secondo singolo, Morirò da re, certificato come il primo doppio disco di platino. A settembre dello stesso anno è la volta di Torna a casa, canzone che si aggiudica il quintuplo disco di platino. “Che mi è rimasto un foglio in mano e mezza sigaretta / Restiamo un po’ di tempo ancora, tanto non c’è fretta/ Che c’ho una frase scritta in testa ma non l’ho mai detta / Perché la vita, senza te, non può essere perfetta / Quindi Marlena torna a casa, che il freddo qua si fa sentire… “. La sua prima apparizione Marlena l’aveva fatta in Morirò da re e ci era sembrata una donna, ma ci eravamo imbrogliati, dopo l’uscita del secondo brano in cui viene nominata è la band stessa a chiarire l’equivoco: “Marlena è la venere del gruppo, la personificazione della nostra libertà, creatività, vita. Torna a casa è un pezzo da ascoltare a occhi chiusi e mente aperta. Aprite la mente per tornare a casa”. Quanto è lungo il 2018 per i quattro rockers romani! Il 26 ottobre mettono fuori il primo album in studio, Il ballo della vita, Damiano ci crede talmente tanto che se lo appunta sul petto. E poi ci crediamo tutti quanti, i Maneskin incantano ammaliano conquistano. Segue una tournée europea, Il ballo della vita tour, che registra il tutto esaurito a ogni tappa. L’anno successivo, a gennaio e ad aprile, escono Fear for Nobody e L’altra dimensione, rispettivamente terzo e quarto estratto. È l’autunno dell’anno Ventiventi e la band torna a entusiasmare col singolo Vent’anni (E andare un passo più avanti, essere sempre vero / Spiegare cos’è il colore a chi vede in bianco e nero), primo estratto di Teatro d’ira, il loro secondo album in studio, che arriva subito dopo la gara canora sanremese di marzo 2021. Il resto è storia che è diventata già leggenda: i Maneskin si classificano primi alla settantunesima edizione del Festival di Sanremo con Zitti e buoni e con lo stesso potentissimo pezzo vincono anche l’ Eurovision Song Contest, per la terza volta dalla nascita della competizione la vittoria va ad artisti italiani. Spariscono un paio di parolacce dal brano (perché, poi, visto che le parolacce le diciamo tutti, tutti i giorni?), ma il pezzo, per volontà dei quattro artisti romani, rimane in italiano, perché così gli è venuto fuori e così esprime al massimo la sua forza. Che lezione di autenticità, hanno dato a tutti noi questi ventenni che già da giovanissimi stringono fra le mani una verità indiscussa: non si può piacere a tutti. E proprio quando non ti sforzi di piacere a tutti che spacchi. Archiviata la querelle coi cugini d’Oltralpe, che hanno rosicato proprio un botto per la vittoria degli esordienti italiani, è stata tutta una volata verso il cielo. Quanto è lungo il salto dal cantare per strada a vincere l’Eurovision? Dipende. Da quanto credi in te stesso e nei tuoi compagni. Da quanto fiato sai mettere nei tuoi polmoni. Da quanto coraggio tiri fuori mentre ti butti, sicuro che non andrai giù, che sulla schiena ti spunteranno ali in cera. Mia figlia decenne mi ha spifferato che su Tik Tok  è la prima volta che ragazzi di tutto il mondo fanno il lip sync (mimano le parole, eh, signore e signori, roba da generazioni Z e Alpha!) di una canzone italiana! E pazienza se c’acchiappano solo su Parla, la gente purtroppo parla, già il fatto che si cimentino è un onore per la lingua italica. L’ascesa dei Maneskin in Europa e negli States è inarrestabile. Ovunque vanno sono accolti da veri divi, d’altronde la posa da divi ce l’hanno, eccome se ce l’hanno. C’è chi li paragona ai The Rolling Stones, chi agli U2. Io credo che i Maneskin sono uguali solo a loro stessi, e, secondo me, stanno entrando meritatamente dalla porta principale nell’olimpo delle grandi star della musica. Il 26 giugno scorso, nel giorno del Pride, i rockers romani sono stati ospiti del Polsat SuperHit Festival, trasmesso dalla tivù polacca; hanno messo in scena quella cosa strepitosa e immaginifica che è I Wanna Be Your Slave che ti fa cominciare a ballare anche contro la tua stessa volontà, e alla fine dell’esibizione Damiano e Thomas si sono baciati. Un messaggio forte, rafforzato poi da parole potenti su Instagram: “Pari diritti per la comunità LGBTQIA+. Crediamo che tutti dovrebbero poterlo fare senza avere paura, che tutti dovrebbero essere liberi di essere chi cazzo vogliono. Grazie Polonia. L’ amore non è mai sbagliato”. D’altronde, la loro liturgia pone sull’altare una Marlena che ha un solo comandamento: sii te stesso, Marlena, vinci la sera, spogliati nera, prendi tutto quello che fa comodo e sincera, apri la vela, dai, viaggia leggera, tu mostra la bellezza a questo popolo (Morirò da re).