giovedì 20 maggio 2021

Il Sentiero dei limoni

 

Il Sentiero dei limoni

 

Storia vera di Carmela (detta Maria) Staibano, scritta da Giovanna Sica e pubblicata sul settimanale Confidenze, Mondadori, n.50 4 dicembre 2018.

 

 

 

Mi chiamo Carmela Staibano, anche se per tutti qui a Villaggio Torre sono Maria. 

Mio padre era vedovo quando si ammogliò con mia madre. Per rispetto alla prima moglie decise che a me, la sua unica figlia femmina, avrebbe dato il nome della compagna defunta, Maria. Solo che Antonio, mio padre, voleva puntellare anche sua sorella, così mi registrò come Carmela, ma con questo nome non mi conosce nessuno. I fatti che sto per raccontarvi appartengono a un’altra epoca. 

Ho visto la luce nel 1926 e nel mio villaggio, abbarbicato alle rocce della Costiera Amalfitana fra Minori e Maiori, eravamo cento famiglie a fare il mondo, il nostro mondo. Il mare e gli altri paesi erano lontani. 333 scalini ci tenevano isolati dalla Costiera. Sapevamo che sotto di noi c’era il mare, lo vedevamo impastarsi al cielo affacciandoci ai nostri balconi. Ma lo percepivamo come una presenza lontana. Noi torresi eravamo e ancora siamo gente di origine contadina. Quasi tutte le famiglie possedevano un piccolo terrazzamento in cui coltivavano fagioli e patate per non morirsi di fame. E poi abbiamo sempre avuto i limoni, ma limoni belli, speciali, tanto è vero che la strada su cui si srotola la nostra comunità si chiama appunto il Sentiero dei limoni. 

So leggere e so scrivere. E di questo devo ringraziare la maestra Giulietta. Mia madre e le altre donne del villaggio non avrebbero mai portato i loro bimbi a scuola giù a Minori, ma, per nostra fortuna, una donna di nome Giulietta si propose come insegnante. Ci riunivamo in una stanza lungo il Sentiero, tutti i bambini di Torre; non è che si poteva fare distinzione in base all’età, le lezioni erano le stesse per tutti. Mia madre paga 5 lire al mese, quello era il prezzo per la mia istruzione. I miei tre fratelli s’arrangiavano a lavorare come muratori appresso al mio papà. 

Finito il tempo delle elementari presi a occuparmi della casa e di mamma che aveva una malattia agli occhi che l’aveva resa quasi del tutto cieca. Andavo a lavare i panni al Belvedere Mortella perché lì c’erano i lavatoi. Era un bel momento. Ci ritrovavamo fra ragazze e ci raccontavamo fatti e sogni. Una cugina di mio padre prese a pretendere che andassi ad aiutarla con le faccende domestiche; lei il lavatoio ce l’aveva in casa e quando strofinavo le sue pezze non potevo nemmeno godermi la gioia di stare con le mie compagne. Mio fratello Gerardo, che era molto protettivo nei miei riguardi, non sopportava che scorticassi anche per altri parenti che già faticavo tanto in casa nostra. Così s’inventò che dovevo andare con lui al giardino per lavorare la terra. In realtà, una volta lì, mio fratello non mi faceva fare proprio niente, lui voleva solo che mi riposassi un po’. Che me ne stessi seduta a rimirare il mare che incorniciava da lontano le nostre vite. 

Una distanza in realtà irrisoria, quella fra il mio villaggio e l’azzurra distesa, ma che a noi torresi sembrava immensa. 333 volte immensa. Come il numero degli scalini che eravamo costretti a percorrere per scendere a Minori. Questo disagio di essere collegati al mondo solo da questi gradini non è una roba di quando io ero bambina. Questa situazione è durata fino a cinque anni fa. Solo nel 2013 noi torresi abbiamo finalmente avuto la strada. Solo dopo una vita di stenti e di continue discese e risalite. Fino a che hai gambe forti non l’accusi la fatica di arrampicarti continuamente su e giù. Ma quando diventi vecchio, quando hai un neonato fra le braccia, quando piove a dirotto, quando hai in mano le buste colme della spesa che ti segano le dita, la stanchezza di vivere appeso a 333 gradini l’avverti, eccome se l’avverti. 

Costruimmo una sedia di paglia sorretta da due mazze di legno che uomini forti si mettevano in spalla per portare giù gli anziani malati che dovevano ricoverarsi all’ospedale; noi donne invece sgravavamo in casa, ci aiutava una levatrice. Non c’è neanche una salumeria quassù; se all’improvviso ti viene voglia di fare un dolce e ti mancano le uova o lo zucchero, non è che li puoi comprare, hai una sola possibilità: chiedere alla vicina di casa, forse per questo nei nostri cortili ci sentiamo un’unica famiglia. Una volta ogni abitazione era dotata del forno a legna, così si faceva il pane per una settimana e pure quello duro, da conservare in busta, che si bagna quando è il momento di usarlo. Eravamo attrezzati per sopravvivere. Tenevamo le galline che ci davano le uova; la mamma di Michele Rocco allevava le mucche e Rosellina, sua figlia, portava il latte davanti a tutte le porte. Avevamo la terra per gli alberi da frutta e gli ortaggi. Ce la siamo sempre cavata, anche perché ci contentavamo di poco. Quando c’era un matrimonio nella nostra chiesetta di San Michele Arcangelo, andavamo tutti, mica c’era bisogno dell’invito. Assistevamo alla funzione religiosa e i genitori degli sposi allestivano un banchetto nella piazzetta davanti alla chiesa. La vita scorreva semplice, grandi pretese non ne avevamo. A noi bastava scavallare la giornata. Arrivare a sera e poter mettere qualcosa da mangiare a tavola. 

Mio marito lo conobbi che avevo già trent’anni. Tardissimo per i miei tempi, che le donne a quell’età avevano già quattro, cinque figli da crescere. Io ero troppo indaffarata a prendermi cura della mia famiglia per potermi innamorare. Noi fanciulle torresi non avevamo molte occasioni di conoscere giovanotti; ci si fidanzava fra paesani, l’ho detto che il nostro mondo era tutto qui. Vincenzo, il mio futuro sposo, veniva da Maiori; era muratore come mio papà, a Torre ci era salito perché stavano costruendo delle case nuove. Mi maritai e cominciai a fare un figlio dopo l’altro. Sei figli. Gerardo, Ada, Assunta, Giuseppe, Pasquale e Febronia. Ma non è che potevo starmene a casa a crescere i miei bambini; mio marito lavorava alla giornata, c’era bisogno che mi rimboccassi le maniche anch’io. Fu così che iniziai a fare la portatrice di limoni, un mestiere che oggi non esiste più qui a Torre, anzi, mi dicono che io sia l’ultima portatrice di limoni ancora vivente. La cesta che mi caricavo in spalla pesava 57 chili. Sotto ci andava un panno chiuso a ciuffo che serviva ad ammortizzare il peso e a impedire che la sporta graffiasse il collo. In una giornata facevo 15, 20 viaggi. Su e giù per i 333 scalini. Più limoni portavo a Minori, più guadagnavo. E lavoravo pure quando ero incinta. Tenevo un pensiero per i miei bambini che stavano a casa, ma non potevo fare diversamente. Gerardo lo lasciavo nella culla da solo. Gli mettevo addosso una specie di panciotto con degli elastici che avevo cucito io che gli permetteva di stare in piedi e di sedersi e nient’altro, così stavo tranquilla che non poteva cadere dalla culla. 

Lo so che oggi mi avrebbero arrestata e tolto i bambini per una cosa del genere, ma all’epoca io non avevo scelta: se non andavo a lavorare non potevo mettere il piatto a tavola. Poi man mano che i figli aumentavano e crescevano si guardavano gli uni con gli altri. Un occhio glielo dava anche la vicina di casa e per il resto ci pensava la Madonna, era a lei che mi affidavo, e la Madre Celeste me li ha sempre guardati, i figli. A Torre non siamo più cento famiglie, ma poco più di cento abitanti. Io vivo ancora nelle case costruite da mio padre, insieme a Febbronia, l’ultima dei miei ragazzi, che ha trasformato parte delle nostre stanze in un bed & breakfast, “Casa San Michele”. 

Chi l’avrebbe mai detto che quassù si sarebbero arrampicate persone provenienti da ogni parte del mondo? In questo cortile, io e Rosetta, la mia fedele vicina, c’abbiamo visto crescere i nostri bambini, scalzi, coi piedi nell’acqua, mezzi nudi che correvano appresso alle galline e facevano le gare coi gatti ad arrampicarsi sugli alberi. Anche se la vita è cambiata, e su questa terrazza che guarda il mare la sera si rilassano persone che parlano altre lingue e vengono da posti che io non vedrò mai, il villaggio Torre ha mantenuto la sua natura più vera: quella di essere un’unica grande famiglia. Io ringrazio Dio. 

Nonostante tutta la fatica che mi ha camminato addosso, ho avuto una vita felice. Sì, sono stata felice sempre, anche nelle difficoltà. E il mio segreto per la felicità stava e sta nel modo allegro in cui mi sono abbracciata la mia vita. C’era sempre del bello, in ogni giornata, pure la più brutta, bastava saperlo vedere. Nella mia memoria è rimasta impressa una giornata della mia infanzia. Mio papà andò a ristrutturare il giardino di un albergo a Ravello. Era un posto bellissimo, sopra le nostre teste si estendeva un vigneto tutto intrecciato, così Antonio decise di portare con sé me e i miei fratelli.  Ognuno di noi aveva una pagnottella di pane per il pranzo, senza niente dentro. Eppure, quel pane vacante consumato quel giorno in quel giardino stupendo che c’era un gran sole io lo ricordo come il più buono della mia vita. I turisti che soggiornavano lì ci guardavano come se fossimo dei disgraziati. “Poveracci, si contentano di così poco” esclamavano. E non la vedevano e non la capivano. 



Tutta la nostra felicità.

2 commenti:

  1. Congratulazioni a Giò per lo stile letterario spontaneo, semplice e raffinato con cui è riuscita a fare rivivere i miei ricordi di sorrisi affannati e sguardi di dolcezza della Signora Carmela. Con le parole di Flaubert: "Sono ricordi teneri ed insieme penosi....Sono vivi nella mia memoria e quasi caldi nella mia anima, per come l'han fatta sanguinare". Grazie per questa preziosa testimonianza. Auguri a Febbronia, alla sua mamma e a tutta la loro Famiglia.

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  2. Linda subito cara, grazie di queste belle parole! Un abbraccio!

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